Esiste un modo per raccontare un disco come "In The Court Of Crimson King" senza correre il rischio di ripetersi? La soluzione l'aveva trovata qualche mese fa il direttore de "Il Post" Luca Sofri, dichiarandosi del tutto inadeguato a parlare dei King Crimson per manifesta inferiorità. Un gesto di grande eleganza che nasconde tutta la sudditanza psicologica di scrittori e ascoltatori ansiosi di tradurre, spiegare o raccontare un'opera che è molto più di una pietra miliare. Tutto ebbe inizio quella sera in cui Robert Fripp si imbatté via radio nelle note di chiusura di "A Day In The Life" dei Beatles. In quel vorticoso crescendo si annidava il seme di quel rock progressivo che avrebbe fatto sognare milioni di persone, e proprio lì il chitarrista inglese avrebbe trovato la propria ragione di vita. Un'esplosione di passioni appunto, perché a dispetto delle severe partiture che la caratterizzano, la musica dei King Crimson è un concentrato di emozioni che sfugge a qualsiasi catalogazione. Se non per i contenuti musicali, oggettivamente rivoluzionari ma non del tutto fruibili per il grande pubblico ancora oggi, "In The Court Of Crimson King" si distingue per la capacità di raccontare le angosce di un'epoca e sintetizzarle in un linguaggio di grande efficacia. Come ad esempio quello dell'incredibile copertina.
E' curioso che i primi artefici di questo capolavoro siano stati due personaggi di fatto estranei alla band, ossia Barry Godber e Pete Sinfield, illustratore e informatico il primo, poeta, scrittore e artista a trecentosessanta gradi il secondo. Non poteva pensare il giovane e sfortunato Godber che quell'immagine da lui appositamente concepita per "In The Court Of Crimson King" sarebbe diventata il simbolo di un'epoca, quasi un'icona pop alla maniera della banana di Andy Warhol, Marylin Monroe o Che Guevara. Lo sguardo atterrito di quella faccia dalle sembianze umane è il ritratto dell'uomo contemporaneo, rappresentazione con la quale i King Crimson si presentano al mondo intero.
"Zampa di gatto, artiglio di ferro
neurochirurghi che gridano sempre di più
Alla finestra velenosa della paranoia
Uomo schizoide del XXI° secolo
Bagno di sangue, filo spinato
pira funebre dei politicanti
innocenti stuprati col fuoco del napalm
uomo schizoide del XXI° secolo
Seme di morte dell'umana cupidigia
poeti affamati di bambini sanguinanti
nulla di ciò che ha gli serve davvero
uomo schizoide del XXI° secolo"
E' il testo integrale di "21st Century Schizoid Man", apocalittico brano che apre il disco e la carriera dei King Crimson. Sono dodici righe degne della migliore poesia ermetica, gli incubi di una generazione raccontati da una prospettiva assolutamente personale (il sottotitolo del disco è "An Observation By King Crimson"), ma al tempo stesso distopica e contemporanea, la lucida visione di un mondo divorato dal cosiddetto progresso che prende lentamente il sopravvento su ogni parvenza di umanità. L'uomo del ventunesimo secolo è malato e soffre di una patologia che lo rende prossimo alla schizofrenia, consumato dalla paranoia e dalla solitudine. Fugge dalla modernità ("I Talk To The Wind") e si rifugia in un mondo dai contorni fiabeschi ("Moonchild", "In The Court Of Crimson King") mentre dipinge un futuro a tinte fosche per l'umanità ("Epitaph"). Un affresco angosciante e poetico reso in modo magistrale dalla penna di Pete Sinfield, autore visionario di testi e poesie che lascerà il segno nel mondo del rock in tante altre occasioni.
Tutto questo non sarebbe quasi niente senza la lucida follia di Robert Fripp, oggi come allora l'autentica entità oscura del mondo King Crimson, una sorta di Gran Maestro che silenziosamente conduce il progetto (perché di questo si tratta) nel grande mare della sperimentazione. Con i King Crimson la destrutturazione del pop rock assume la sua forma definitiva, sotto l'influenza di generi primordiali come jazz, blues e classica. Ad attenuare l'acidità del brano di apertura ci sono ballate dal gusto bucolico e sinfonico, arricchite da continui inserti di mellotron, sax, clarinetto e vibrafono. Un gruppo di musicisti incredibili poco più che ventenni (non ce ne dimentichiamo...) trovatosi quasi per caso al posto giusto nel momento giusto: Ian Mc Donald è forse il meno conosciuto ma suona sei strumenti e mette la firma sulla title track e "I Talk To The Wind". Volerà qualche anno dopo al di là dell'Oceano per dare inizio alla fortunata favola dei Foreigner. Michael Giles intraprenderà una lunga carriera da sessionman, mentre il bassista Greg Lake da lì a breve formerà un altro colosso del prog a nome Emerson Lake & Palmer. Più che una band, un autentico caos che ha partorito un mare di stelle danzanti, tutte quante passate alla corte del Re Cremisi.