Marillion
Brave

1994, EMI
Prog Rock

Il manifesto del moderno prog romantico, un capolavoro assoluto.

Recensione di Luca Ciuti - Pubblicata in data: 20/05/15

Da ascoltare a luci spente e al massimo volume. La guida all’ascolto di uno dei dischi più belli e struggenti degli anni ’90 è tutta nelle note di copertina. Un disco che con il sound, le mode e la mistica di quegli anni non ha praticamente nulla da spartire, e il fatto che a concepirlo sia stata una band reduce del decennio precedente e in cerca di riscatto rende tutto ancora più curioso. Non avevano saputo resistere alla tentazione di rendere ancora più accattivante il proprio sound, i Marillion, ma andarono miseramente a vuoto con il mediocre “Holidays In Eden”. La popolarità della band scese in picchiata e la carriera dei nostri sembrava giunta a un binario morto. Qualcuno alla EMI iniziava già ad avere il mal di pancia, altri erano pronti a recitare il de profundis e la voglia di rivincita non poteva che passare da un ritorno al passato, da un parziale recupero delle origini e dei suoi modelli. La storia insegna che i castelli sono da sempre luogo di grande ispirazione per qualsiasi musicista, e fu così che Hogarth e soci si trasferirono in un castello dell’Aquitania, nel cuore della Francia, in cerca della giusta ispirazione. Furono nove mesi di duro lavoro e di sessions infinite, più che un parto, un vero e proprio travaglio. Ma il settimo figlio arrivò, ed era un autentico capolavoro.

“Brave” si ricongiunge idealmente a un altro concept di famiglia, quel “Misplaced Childhood” che dieci anni prima aveva sancito il successo su larga scala per la band britannica. Un ponte ideale fra passato e presente, un ponte che è anche il luogo dove la nostra storia ha inizio: ci troviamo infatti sulle sponde di quel Severn Bridge che unisce Inghilterra e Galles, mentre la chitarra è intenta a ricreare il suono della sirena di una nave, un artifizio stilistico che tornerà in futuro nell’immaginario di Steve Hogarth, figlio di un ex ufficiale di marina, abile a ricreare i suoni e i colori dell’acqua e del mare. E’ la fervida immaginazione del singer a rielaborare il tema dell’adolescenza tradita, già conduttore su “Misplaced Childhood”, in un concept in cui il dramma personale di una ragazza smarrita si incrocia con la contemporaneità. Sono undici brani solenni, dai toni sofferti e melliflui, a tutti gli effetti un opus magnum cui calza in modo perfetto la veste del concept. Sono tuttavia le dinamiche e i dettagli a esaltarne il valore, fra tuonanti accordi di pianoforte, ficcanti riff di chitarra, fulminei inserti di tastiere ed effetti che donano quel tocco di magia a un’opera già di per sé evocativa. Le gocce iniziali di “Living With The Big Lie” sono le stesse di “Echoes” così come gli accordi iniziali di “The Great Escape” richiameranno “Time” alla mente degli ascoltatori più attenti: il gioco dei richiami fa solo da sfondo a un’opera in cui la mistica del prog alla Genesis si incrocia con atmosfere soft rock in un connubio che conduce la musica dei cinque inglesi a un maggior livello di profondità rispetto al passato, mettendo così a tacere coloro che li accusavano (magari non a torto…) di scimmiottare la band di Peter Gabriel. “Brave” è un immenso, struggente affresco di rock e poesia, introspezione e scosse improvvise, struggenti ballate e sofferte litanie in chiaroscuro. Un sound ad alto impatto emozionale che lascia intravedere sullo sfondo persino tinte ambient e folk come nella suggestiva title track e che culmina nel solenne crescendo della conclusiva “The Great Escape”.

Di motivi per ricordare il disco ce ne sono parecchi: sarà l’ultimo disco della band a entrare nella top 10 inglese, e nel giro di un anno diventerà persino un film diretto da Richard Stanley. Per registrare “Brave” furono piazzati microfoni in più punti del salone del castello di Marouatte per catturare ogni minima vibrazione e onda sonora, una tecnica che pochi anni dopo sarà recuperata dai Radiohead per scrivere un capitolo di storia della musica a nome “OK Computer”. Il risultato è quello che abbiamo tentato di descrivervi, non solo il più classico dei capolavori, ma una pietra miliare di quegli anni e del rock progressivo in generale. Da ascoltare a luci spente e al massimo volume.




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