Oceans Of Slumber
Winter

2016, Century Media
Progressive Metal

Recensione di Roberto Di Girolamo - Pubblicata in data: 25/03/16

Spesso il primo disco è per una band poco più che una sorta di provino, utile a testare il dosaggio di una ricetta che esprimerà il suo potenziale solo successivamente, magari grazie ad un fondamentale innesto nella line-up. È proprio questo il caso dei texani Oceans Of Slumber, che con l’ingresso di una voce suadente e capace come Cammie Gilbert elevano la propria proposta e danno alla luce - dopo un EP - a un interessante album progressive dalle molteplici influenze.


L'opener, e title track, di "Winter" è di per sé un viaggio nei meandri della cover, tra dinamiche di ampio respiro e pennellate scure marcate da un growl corposo e da acidi scream. Il percorso prosegue poi in maniera più diretta con una “Devout” dall’andamento tirato ma che si distingue per vocals pulite ispirate e controllate, in pieno contrasto con blast-beat al fulmicotone e voci abrasive, almeno prima di raggiungere scenari irregolari di più ampio respiro.


Il mood di “Nights in White Satin” (cover dei The Moody Blues) viene costruito su melodie crepuscolari e armonie autunnali, ma la quiete viene bruscamente interrotta da un ritornello memorabile che viene poi ripetuto sulla base instabile e terremotante del bridge, decuplicando così il sovraccarico emozionale.


“Laid To Rest” continua in modo più malinconico, con chitarre acustiche eteree a colorare delicatamente gli spazi più chiari dell’immagine posta sull’illustrazione del disco, prima di condurci verso un mid-tempo come “Suffer The Last Bridge” dalle intenzioni più dirette e marcate. Non raggiunge invece il picco delle altre tracce “Sunlight”, pur tenendo conto che in altri dischi sarebbe considerato uno dei pezzi migliori grazie quella melodia introspettiva che colpisce da subito i meandri più personali dell’ascoltatore.


“Turpentine” è un’altra hit dalle dinamiche ampie in cui gli arpeggi puliti del brano vengono trasformati in una sorta di bossa nova conclusiva.
“Apologue” parte in quarta, con la singer a dettare le danze aiutata dai growl di Sean Gary, tra chitarre affilate e tappeti di doppia cassa che sfociano in sfuriate chitarristiche in tremolo picking dal sapore scandinavo.


“…This Road” parte come una ispirata ballata pianistica per poi diventare un brano dall’andamento più canonico ma dotato di una sensibilità particolare, dove influenze disparate fanno capolino in modo coerente a quanto avviene nelle partiture degli altri strumenti.
“Grace” è un altro tuffo al cuore, con quel pianoforte che fa scorrere istantanee di momenti abbandonati, resi più grevi da occasionali stop su note jazzy meno stabili e più incerte.

 

La produzione e la post produzione sono di altissimo livello, sebbene l’uso dei sample nel drum reinforcement a volte finisca per ridurre troppo la dinamica in alcuni sezioni e in alcuni fill, estraniando un po’ dall’atmosfera magica che si respira nel disco.
In ogni caso, non scaricate questo disco, nemmeno legalmente. Piuttosto comprate una copia fisica e sublimate il lavoro che avete tra le mani accompagnandovi con il booklet. Ammirate la splendida cover art di Costin Chioreanu e lasciate che le note vi si stampino nel cervello.

 

“Winter” e la band che l’ha composto potrebbero rappresentare il proseguimento di quello che per la scena metal hanno rappresentato le intuizioni di gruppi come i The Gathering nella prima metà degli anni ’90. Ancora una volta, un nuovo modo di intendere la musica pesante potrebbe essere ricavato dal mischiare ulteriori stilemi e intuizioni disparate, il tutto però contestualizzato in un quadro olistico coerente nella sua eterogeneità.
Ai posteri l’ardua sentenza.





01. Winter
02. Devout
03. Nights In White Satin
04. Lullaby
05. Laid To Rest
06. Suffer The Last Bridge
07. Good Life
08. Sunlight
09. Turpentine
10. Apologue
11. How Tall The Trees
12. ... This Road
13. Grace

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