Dite la verità, quanto state soffrendo? L’abbuffata di concerti è bella che passata e resta un mese da passare a combattere il caldo torrido in attesa delle agognate vacanze. Come scuotere l’apatia dei metal kids in un mese come luglio, solitamente avaro di novità discografiche? Potrebbe bastare, a tenere alta la tensione di un pubblico già proiettato in spiaggia o al prossimo festival, il secondo round del match fra gli ex Queensryche? I temi piccanti di certo non mancano. Le due formazioni nate dallo scisma dello scorso anno dalle parole sono già passate ai fatti. Geoff Tate contro gli altri, presente contro passato. Roba da fantascienza fino a pochi anni fa. “Frequency Unknown” (qui la nostra recensione) si è rivelato un disco tutt’altro che banale ma un colpo a vuoto in termini commerciali. Tate si è mostrato ancora più ostinato a percorrere la strada della svolta personalistica al sound della band, a dimostrazione che certe divagazioni stilistiche (opportunamente mitigate, va riconosciuto) erano tutt’altro che un colpo di testa. Cos’altro potevano fare i tre superstiti, se non accontentare quella fetta di pubblico rimasta orfana del vecchio sound? Mossa studiata a tavolino potrebbero pensare i maligni, alimentata dal mezzo fiasco dell’ex cantante.
Che le cose stiano effettivamente così o meno poco importa, quello che conta in questi casi è il risultato. Il disco dell’agognato ritorno alle origini, a quel sound che da sempre appartiene alla band, ha il sapore di un nuovo inizio parafrasato dal titolo omonimo, ma Wilton, Jackson e Rockenfield non avrebbero potuto arginare il carisma del loro ex cantante, se non avessero deciso di sostituirlo con Todd La Torre. Un caso unico al mondo, quello del cantante americano, l’unico uomo capace di raccogliere l’eredità del compianto Midnight prima e di rimettersi in discussione affrontando la sfida più difficile di tutte, quella per l’eredità di un certo Geoff Tate. “Queensryche” è un disco che si fa strada con una certa gradualità nella testa dell’ascoltatore; le prime tracce suonano cadenzate ma subito è possibile scorgere le melodie che hanno fatto la fortuna del gruppo. Tutto suona assai più familiare delle ultime uscite, “In This Light” è un salto indietro nel tempo in grande stile, “Redemption” strizza l’occhio a “Promised Land” mentre con “Vindication” LaTorre svetta altissimo su un chorus di quelli che si stampano subito in testa. “A World Without” rispolvera il lato onirico dei Queensryche, forse il pezzo migliore del disco assieme alla conclusiva “Open Road”, altro pezzo da novanta che va ad allungare la tradizione dei brani di chiusura come “Anybody Listening” o “The Right Side Of My Mind”.
La situazione è paradossale: da una band letteralmente a pezzi nascono due gruppi, con lo stesso monicker,che regalano due lavori migliori di quanto prodotto da parecchi anni a questa parte. Un po’come dire che il risultato dei singoli è molto meglio della somma, ma la musica si sa più che di fisica, è una questione di chimica e il teorema è bello che dimostrato. Questo disco omonimo suona parecchio più classico del suo diretto antagonista, e porta finalmente a compimento quell’operazione di recupero delle sonorità che hanno fatto la fortuna dei Queensryche. Un marchio di fabbrica di cui la band può finalmente riappropriarsi, senza timori reverenziali verso nessuno.