Pianos Become The Teeth
Wait For Love

2018, Epitaph
Post-Hardcore, Post-Rock

Un disco equilibrato ma che non spicca il salto necessario per entrare nel campionato di massima serie

Recensione di Giovanni Maria Dettori - Pubblicata in data: 04/07/18

I Pianos Become The Teeth rappresentano un tassello importante nella scena Post-Rock e Post-Hardcore: in attività dal 2006 la band del Maryland è al suo quarto album, “Wait for Love” che sin dalla raffinata copertina (dalla quale non bisognerebbe mai giudicare, ma che nel mondo della musica nasconde messaggi e significati non da poco) promette qualcosa di interessante. L’album è dotato infatti di uno stile capace di unire sonorità Hard-Rock a spazi malinconici tipici del Post-Rock, con una dose melodica che ricorda quella del Pop-Rock dei 2000 (Killers e Keane) con una struttura ritmica congegnata per far incastrate in maniera simbiotica le percussioni e le chitarre con la voce di Kyle Durfey.

 

Il rock raffinato e con quel retrogusto malinconico-estivo di “Fake Lighting” e “Charisma” amplificano la voglia di evasione dell’ascoltatore, con suoni stabili, non stravaganti ma che piacciono dal primo ascolto. Al terzo brano, “Bitter Red”, il disco comincia a sembrare però viaggiare sempre sullo stesso binario, senza discostarsi troppo dalle traiettorie già tracciate, per poi rallentare ancora di più con “Dry Spells”. Bisogna attendere “Bay of Dreams” per ascoltare qualcosa di diverso, con l’introduzione di batteria e le armonie oscure che le fanno da contorno, quasi al limite del funereo ma molto d’effetto.

 

Il disco si risveglia dalla cupezza precedente con la ben più solare “Forever Sound”, brano non entusiasmante in cui il grosso è sostenuto dalla batteria, mentre le chitarre si adagiano a puro accessorio senza trovare una vera e propria definizione. Il disco paradossalmente si fa più interessante quando si macchia di nero, forgiandosi di ombre e chiaroscuri: è quindi “Bloody Sweet” a convincerci di più, pur senza stravolgerci. E alla settima traccia abbiamo più indizi per poter parlare di un disco che non si sbilancia e che rimischia troppo spesso le sue carte. Carte che, ahinoi, compongono un mazzo non eccessivamente variegato e folto, finendo per risuonare come ripetitivo e poco entusiasmante. Non ci sono veri e propri salti, come mancano d’altra parte anche gli elementi per coinvolgere sino in fondo. Va riconosciuto che questo alla lunga risulta come difetto dello stesso genere, quel Post-Hardcore che è un ibrido non sempre facilmente definibile, che quando sembra pronto a lanciarci verso l’euforia si ricrede, e preferisce riflessi che si specchiano nella pacatezza. Nulla vietava però di provare ad andare oltre questo limite che finisce per tagliare troppo le ali all’intero album. “Manila” prova ad alzare l’asticella delle emozioni, ma ci riesce solo parzialmente. Ben più interessante è la bella “Love on Repeat”, dove le chitarre svolgono un ruolo eccellente nel tracciare la cornice del ritornello, in un brano che cresce progressivamente ascolto dopo ascolto, mentre la chiusura, affidata a “Blue” risulta troppo poco efficace.

 

"Wait for Love” piacerà comunque ai fan della band e del genere, ma difficilmente riuscirà ad attrarre, con le sue fiamme troppo fioche, l’attenzione di molti altri. L’album non si sbilancia, e resta saldo nelle sue posizioni, incupendosi progressivamente ma non sorprendendo nella sua poca varietà nonostante il buon inizio. Un peccato perché lo stile raffinato non è stato unito a trame melodiche che le rendessero giustizia.





01. Fake Lighting
02. Charisma
03. Bitter Red
04. Dry Spells
05. Bay of Dreams
06. Forever Sound
07. Bloody Sweet
08. Manila
09. Love on Repeat
10. Blue 

Intervista
Anette Olzon: Anette Olzon

Speciale
L'angolo oscuro #31

Speciale
Il "Black Album" 30 anni dopo

Speciale
Blood Sugar Sex Magik: il diario della perdizione

Speciale
1991: la rivoluzione del grunge

Speciale
VOLA - Live From The Pool