Radiohead
A Moon Shaped Pool

2016, XL
Alternative, Rock-sperimentale

Un album anomalo e ricco di sfumature. Un proiettile carico di soffocata tensione che ci "immerge" nello sconfortante panorama delle scelte sbagliate degli uomini.
Recensione di Giovanni Maria Dettori - Pubblicata in data: 17/05/16

Non è mai facile confrontarsi con una band come i Radiohead. Perché? Perchè facili non sono mai state le scelte musicali della band di Thom Yorke. Gli intricati e impervi percorsi tracciati dai 5 dell'Oxfordshire hanno ripetutamente lasciato senza fiato sia chi li ama, che chi li odia... Persino chi li voleva ignorare e finiva per non riuscirsi.
Perdersi in un excursus stilistico sui Radiohead richiederebbe veramente troppo tempo, ma una cosa è certa: Dal 2000 in poi, qualcosa è cambiato. La svolta, e secondo alcuni "deriva", elettronica ci ha fatto immergere in abissi inesplorati, non sempre da tutti graditi, ma senz'altro sconosciuti. Dopo una parziale "riemersione" dal 2003 al 2007 (vedere "Hail to the Thief" e "In rainbows", quest'ultimo vero e proprio punto d'incontro delle due anime musicale della band), la band si era nuovamente agghindata con uno scafandro quanto mai robustamente elettronico, per tuffarsi in un oceano dal fondale non chiarissimo, del quale forse anche gli stessi Radiohead non erano riusciti a raccontarci i profili, con quel "Kings of Limbs" che aveva le forme di un misterioso obelisco, ancora oggi non facilmente decifrabile.

 

"A Moon Shaped Pool" è arrivato dal nulla, come un fantasma. Come un amico che non vedevi da troppo tempo, e che improvvisamente ti ritrovi alla porta. Lo guardi, non dice nulla. Ha l'aria di averne passate troppe, i suoi vestiti sono scuciti, strappati e rotti. Lo lasci entrare, ha una lunga storia da raccontarti, e ti chiede di sederti per ascoltarlo.
Le suggestioni, le ansie, le paure e le speranze da lui raccontate ti fanno riflettere su un mondo nel quale hai sempre vissuto, ma di cui ora hai veramente un'immagine nuda, oltre quei confini che nemmeno i media e i social di oggi ti permettono di superare. Esatto, quest'album suona esattamente così. Come una serie di quadri che dipingono con pennellate varie e diverse una realtà ben definita, visti attraverso le semplici lenti di un uomo qualunque del nostro secolo.

 

"Burn the Witch", con i suoi archi iniziali, ha le sembianze di un pezzo Pop. Ma in breve si trasforma con il suo inquietante crescendo (reso perfettamente per altro dal video) in un viaggio nell'oltretomba dell'ipocrisia degli umani che cercano sempre un nemico, una "strega" da bruciare, per cercare rifugio dalle mancate certezze della propria vita.
Non è l'unico caso. Capita spesso di confrontarsi durante l'ascolto del disco con una melodia rassicurante, piacevole e micidialmente familiare, che in breve si trasforma in paura ed insicurezza, a testimoniare un mondo che non ha più una connotazione precisa ed univoca. Succede ad esempio con "Decks Dark", in cui dall'oasi delle proprie e sicure mura si viene proiettati in un deserto di desolazione, dal quale non resta che rifugiarsi nel sonno. Già, beato chi sogna. O forse no. "Daydreaming" è un proiettile imbottito di morfina, il cui delicato pianoforte ci lancia in una dimensione dove le pareti del sogno si rivelano essere ancora più fallaci della stessa realtà. E lo canta anche Thom Yorke: "Dreamers, They never learn. Beyond the point Of no return [...] And it's too late. The damage is done."

 

La sofferenza e la solitudine sono monumenti verso i quali si è quindi letteralmente obbligati a confrontarsi ascoltando quest'album. In una valle di nebbia dai toni "Leopardiani", dal quale non si può fuggire. Non è facile tenere gli occhi aperti, nemmeno viaggiare o "Prendere un treno", perché gli spettri ti inseguono in ogni caso (vedere "Glass Eyes"), e bisogna comunque proseguire nel viaggio per raggiungere un po' di serenità. Superando le paure "incomplete" di "Ful Stop" si arriva ad "Identikit", un piccolo bagliore di luce, nonché una delle tracce più vive dell'album, album che nella sua interezza ha senz'altro dei toni quasi totalmente placidi plasmati tra ambient, musica classica e scintille elettroniche, che danno al tutto una natura distesa e delicata. Non c'è infatti una volontà da parte dei Radiohead di far scontrare l'ascoltatore con una realtà a dir poco depressa e deludente, ma di farlo immergere dentro di essa, e lasciare che sia lei stessa a dire quello che deve dire, avvolgendolo con i suoi infiniti tentacoli.

A dare più "colore" all'album, c'è anche la deliziosa parentesi proto-jazz di "The Numbers" che flirta con curiosi archi medio-orientali, e "Present Tense", un brano acustico pressoché da cantautorato, che ha il compito di sciogliere assieme alle due precedenti tracce la glacialità desolante trasmessa dal "racconto" messo in scena da Yorke e co. Ma le nubi tornano. Il cielo si rifà scuro con "Tinker Tailor Soldier Sailor Rich Man Poor Man Beggar Man Thief", illuminato solo da bislacchi fuochi d'artificio finali.
A chiudere il tutto c'è una "fantascientifica" ed inaspettata rivisitazione di "True Love Waits", come a testimoniare che quanto nemmeno ciò che prima era certo sta cambiando. Ciò che prima c'è stato e di cui si è sicuri è cambiato e non lo e più, dopo il racconto di un viaggio del genere, che finisce per rimettere in discussione anche chi lo ha ascoltato.


Da un punto di vista musicale,  "A Moon Shaped Pool" è pressoché perfetto. L'artificio elettronico di cui i Radiohead si erano "riempiti la bocca" (nel vero senso della parola, considerato che a farne le spese era stata anche la voce di Yorke) , non c'è più. In compenso ogni elemento è al suo posto, fa il suo dovere, e brilla della luce di cui deve brillare, come in un negozio di vetri pregiati. Non si può veramente appuntare nulla ai pezzi in sé, perchè per come sono stati concepiti, la realizzazione musicale è sensazionale. Non può non notarsi una quasi certa coralità nei capitoli compositivi del disco: già, stavolta il lavoro non è stato solo di un componente, ma ha visto una volontà comune nella definizione dell'album, facendo crollare quel feticcio dittatoriale dei sintetizzatori, che è rimpiazzato dalla completezza armonica e acustica. Resta però un problema: "A Moon Shaped Pool" è un album Rock? No. Neanche per sogno. Ma non vuole nemmeno esserlo. Non è un album da Festival Rock, ma forse nemmeno da Tour nei palazzetti. E' un album talmente intimo e profondo che necessiterebbe di un'orchestra e di un pubblico adagiato su una poltrona pronto ad immergersi nel suo ecosistema. E' un album che va oltre tutte le etichette possibili, e che spezza un'altra volta con il passato dei Radiohead. E' un nuovo "Kid A" in poche parole. Stavolta però ad essere dipinta non è l'ossessione tecnologica e apatica dell'uomo del 2000, ma le sue battaglie perse, i suoi rimpianti e gli amarissimi frutti che sta raccogliendo con il suo egoismo.





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