“I premi sono per le reginette di bellezza”. Così afferma Sepùlveda, per bocca di un indignato Klaus Kucimavic nel celeberrimo “Patagonia Express”. Deve averla pensata così anche Bob Dylan una volta messo al corrente dell’assegnazione al Premio Nobel per la letteratura. Come lo scrittore cileno, anche il menestrello di Duluth ha fatto della libertà artistica e dell’impegno politico dei punti fermi nella propria carriera; Dylan è sempre stato un antidivo, poco avvezzo alle logiche dello star system e del red carpet, sfiorando talvolta atteggiamenti ai limiti dell’arroganza. Vietato stupirsi, semplicemente questo è Dylan, e chi lo conosce non poteva aspettarsi niente di meno. Parlare di lui è semplicemente fantascienza, definire la sua musica un mondo a parte è riduttivo, è “una autentica geografia, un universo semiotico, un’intera cultura concentrata in un unico performer”, come lo ha definìto Alessandro Carrera nel suo “La Voce di Bob Dylan - Una Spiegazione dell’America”. Dylan ha schiuso più di tutti le porte del pop alla tradizione e viceversa, mostrandosi altresì capace di tornare alla semplicità degli accordi e delle emozioni fondamentali.
Per il suo trentottesimo disco in studio Dylan non lascia né raddoppia ma, per la prima volta nella sua carriera, si fa addirittura in tre, caratterizzando sempre di più in senso imprevedibile e inaffidabile il suo peregrinaggio artistico. Lo fa attingendo ancora una volta a quell’autentico universo parallelo rappresentato dalle canzoni tradizionali americane. D’altra parte Dylan non ha mai nascosto il suo amore per la musica degli anni ’50, passione già emersa nell’ultima fase della sua carriera, quella da “Time Out Of Mind” in avanti (parliamo degli ultimi vent’anni…), che ha portato il nostro ad abbracciare uno stile ben definito portato avanti con alcuni dischi fra i migliori della sua carriera. “Triplicate” si compone di ben trenta composizioni dei più grandi songwriters americani, suddivise per tema e rilette da Dylan secondo il suo straordinario talento. Dylan non è nuovo a questo tipo di operazioni, dai tempi del suo debutto numerose sono state le riletture della tradizione americana, per arrivare sino al recentissimo “Fallen Angels” (2016). Trenta canzoni divise in tre dischi distinti, mutuate dal repertorio di autori americani come Charles Strouse e Lee Adams (“Once Upon A Time”), Harold Arlen e Ted Koehler (“Stormy Weather”), Harold Hupfield (“As Time Goes By”) e Cy Coleman e Carolyn Leigh (“The Best Is Yet To Come”). Delicati ritmi shuffle, tappeti di hammond e fiati che disegnano splendidi notturni, fraseggi di chitarre anni ’50 e di settime diminuite, con “Triplicate” Dylan pesca nel lato più nobile e colto della musica yankee, quello delle Big Bands, delle colonne sonore anni ’50 e del soul. Dylan continua a rappresentare con ineguagliata maestria i sogni e le paure dell’America profonda e recondita, senza tronfi patriottisimi. Brani a cavallo fra il soul e il blues, ideali per serate passate in qualche fumoso club in compagnia di una splendida donna, in cui la voce di Dylan assume per l’ennesima volta in carriera dei tratti inediti a metà fra il crooner e il singer d’autore.
Diciamolo chiaro, “Triplicate” non è certo uno di quei dischi che si ascoltano con disinvoltura, la vastità e la compattezza dell’opera metteranno a dura prova anche il pubblico più old school oriented. Diciamo che se subite il fascino di un certo tipo di sonorità retrò, quelle dei vostri nonni per esempio, l’ascolto di “Triplicate” potrebbe essere l’equivalente di un viaggio straordinario. Per gli altri, potrebbe essere un modo curioso per confrontarsi con un arzillo vecchietto di settantasei anni continua, in qualche modo, a fare la storia e a raccontarla.