Affrontare un album degli Abaddon Incarnate vuol dire avere a che fare con 20 anni di carriera e la continua evoluzione che la band irlandese ha perseguito con estrema chiarezza lungo tutto il proprio percorso artistico. Anche questo “Pessimist” è un ulteriore passo avanti in questo senso: ad esempio i testi delle canzoni, per una volta non più incentrati sui triti luoghi comuni di occultismo e orrore, ma focalizzati sui sentimenti negativi come la depressione, la solitudine, il rimpianto, che riescono ad amalgamarsi perfettamente con la cupezza delle composizioni; un ulteriore cambiamento è dato dalla decisione, nell’era delle registrazioni in digitale, di perseguire un suono molto più crudo, affidandosi a registrazioni in presa diretta, assimilabili quasi ad un’esibizione dal vivo, ed il risultato ha sicuramente premiato la scelta dei musicisti irlandesi, con un album violento, crudo, ma non per questo suonato in modo impreciso; anche la struttura dei singoli brani merita una certa attenzione, in quanto ci troviamo di fronte ad un intrigante mix di elementi death metal (provenienti dalle origini della band) e grindcore che permette di sviluppare un percorso fatto di violente accelerazioni, di momenti rallentati di matrice death e di inserti punk, capaci di dare un certo movimento ai brani e di impedire che una costruzione troppo standardizzata faccia subentrare nell’ascoltatore una certa noia.
Si parlava prima di tecnica dei membri della band: con una formazione stabile ormai dal 2007 (successivamente all’anno di split avvenuto per problemi personali), gli Abaddon Incarnate possono contare su un meccanismo ormai perfettamente rodato. Il batterista Johnny King ha indubbiamente il merito di reggere le fila della sezione ritmica grazie ad una bravura indiscussa: nonostante l’estrema velocità della sua esecuzione, non ci si ritrova mai di fronte ad un momento in cui la sua tecnica sia imprecisa o scoordinata; gli stessi Steve Maher e Bill Whelan (i due fondatori della band e gli unici elementi originali rimasti) alle chitarre ed alla voce, nonostante la violenza della proposta musicale, riescono a tessere momenti melodici e riff articolati all’interno dei singoli brani e l’utilizzo dei due diversi registri vocali (Steve sui toni bassi e Bill su quelli più alti), permette una maggiore varietà di interventi.
Con “Pessimist” ci troviamo di fronte ad un album che guarda al passato (per la precisione a “Nadir”, secondo album della band e apice della loro carriera) ma anche al futuro, realizzato da una band forse poco conosciuta al di fuori della scena britannica ma di ottimo livello. Non un acquisto per tutti, ma i fan del grindcore avranno di che deliziare le proprie orecchie.