Una vera e propria dipendenza dal melo-death di quelle zone, la loro ma si sa: le dipendenze non portano mai a nulla di buono. Non che il disco sia da buttare, tutt'altro: trasuda passione, esperienza e perizia tecnica da ogni poro. Ciò che gli manca, però, è quel "quid", quel qualcosa che separa i primi della classe da quelli che "sono bravi, ma non si applicano", e che durante l'ascolto ti spacca l'anima e te la riempie di pensieri, di emozioni, di spiritelli danzanti... o almeno dovrebbe. Manca la personalità, il guizzo, la scintilla. Lacune a cui, forse, gli estimatori del genere nemmeno faranno caso: a soddisfarli ci penserà la produzione massiccia e cristallina, il growl cavernoso di Tomasz Wisniewski, bravissimo ad imitare in tutto e per tutto il suo ben più celebre collega Johan Hegg (degli Amon Amarth), oppure gli intrecci armonici creati dalle due asce, Lukas Kerk e Oliver Kirchner, il riffing roccioso sputato dalla coppia, mai troppo tecnico o raffinato, e le soluzioni melodiche (che funzionano, ma che proprio non riescono a coinvolgere o a stamparsi nella mente come dovrebbero), il tutto scritto come da manuale; il tutto, purtroppo, che sa già di sentito decine e decine di volte.
Sia chiaro, si scapoccia alla grande, come in Leprous Thoughts, in Perimortal, o nell'assassina Akephalos, scelta come singolo, e poi c'è l'highlight dell'album, l'ottima Fleshless Journey, un mid-tempo che in certi frangenti pare quasi voler invadere certi lidi sognanti e ai limiti del black-gaze. È che alla fine dei 50 minuti di Ascension Gate, resta davvero poco nell'ascoltatore. Non che sia un male, solo che si tratta, forse, di un piacere fin troppo effimero, che in un'epoca di bulimia artistico-contenutistica rischia di portar via del tempo preziosissimo, troppo tempo preziosissimo, ormai vera valuta di questi anni.