Auri non è la prima manifestazione artistica della coppia di sposi Johanna Kurkela (nome non troppo noto dalle nostre parti, a meno che non siate fan dell’Eurovision) e Tuomas Holopainen (nome che, certamente, fa suonare ben più di un campanello in molte più teste), ma si giustifica come entità nuova e indipendente non solo grazie all’innesto in pianta stabile in formazione di Troy Donockley (cornamusista di lungo corso dei Nightwish e grande amico di Holopainen), ma anche ad una proposta musicale decisamente diversa da quella colonna sonora delle peripezie di Zio Paperone nel Klondike.
Se, difatti, le “Lifetime Adventures” di Scrooge si caratterizzavano, per estrema semplificazione, con l’essere un album (ben riuscito) dei Nightwish senza la sezione rock/metal dei Nightwish, “Auri” è una creatura decisamente più fiabesca. Non solo grazie all’ispirazione letteraria di Patrick Rothfuss, ma soprattutto per un sentito omaggio in musica a quella “Golden age of the new-new age” che nacque all’inizio degli anni ’90 con Enya, ed è quindi proseguita robusta con la consacrazione di Loreena McKennitt, salvo oggi sopravvivere con quella branca di folk elettronico e boschivo che siamo soliti definire “fairy folk”.
Basta sentire la progressione incantevole di “Aphrodite Rising”, i cori che sostengono il finale di “Savant”, il sentito dramma di “I Hope Your World Is Kind” o, più banalmente, l’arrangiamento di “See”, che pare un outtake da “The Mask And Mirror”. Certo, c’è un senso di familiarità (vi si avverte: molto vago) nella struttura degli arrangiamenti, nella punteggiatura, nelle armonie che richiamano direttamente la mano di Holopainen (“The Name Of The Wind”, “Night 13”, comunque più disneyane e soliste che non gotiche e sinfoniche), ma è quando il disco si impreziosisce di inserti pop prog di derivazione ‘80s che il tutto, letteralmente, prende il volo: basta citare il Moroder a cavallo del Falcor e pronto a scrivere una "Storia Infinita" sull’incipit di “The Space Between”, oppure l’intermezzo che sconvolge l’Arabia di “Skeleton Tree”, per finire con quel romanticismo da canzone da falò animato da creature stregate che è uno smaccato omaggio alle fondamenta su cui i Nightwish si sono poi effettivamente sviluppati ben rappresentato da “Desert Flower”.
Su tutto, poi, un senso di teatralità da vocal pop che rimanda direttamente a Sarah Brightman, e questo non certo per manifeste doti di Johanna (ferma sul monotono pop di maniera), quanto piuttosto per la magniloquenza e seriosità che da molti anni circonda le composizioni di Holopainen, mai così povere di chitarre e di sezione ritmica propriamente detta. E negli effetti, è un disco estremamente piacevole questo, che mostra il fianco solamente su lungaggini forse eccessivamente moleste (“Underthing Solstice”), o delle ingenue banalità di cui si sarebbe fatto volentieri a meno (“Savant”, e quel suo effetto da “Cattivo di Final Fantasy”).
Su tutto, vincono però alcune considerazioni che verranno ora proposte, non senza un certo senso di provocazione. La prima è che Tuomas Holopainen pare aver ritrovato la potenza del sogno che la concretezza hard rock di “Endless Forms Most Beautiful” sembrava aver inesorabilmente spazzato via; la seconda intuizione è che nuovamente con un progetto collaterale ai Nightwish la musica del tastierista finlandese torna a farsi autenticamente interessante.
E ricordate che due indizi fanno sempre una prova.