Nine Inch Nails
Bad Witch

2018, The Null Corporation/Capitol Records
Alternative Rock

I Nine Inch Nails rischiano grosso, spiazzando le aspettative dell'ascoltatore con un album che confina col jazz, l'ambient e che non teme di avventurarsi nell'inesplorato. E la fortuna premia gli audaci.
Recensione di Matteo Poli - Pubblicata in data: 26/07/18

Avevamo lasciato Atticus e Trent dei Nine Inch Nails alla fine della primavera, pronti a sfornare il terzo attesissimo EP dell'annunciata trilogia, seguito del riuscito "Add Violence" . Impegnati in tour con The Jesus and Mary Chain, i due annunciano la pubblicazione di un intero nuovo album. Dopo una breve crisi creativa, culminata in una scommessa, pare che i nostri siano rimasti indecisi per un po' se pubblicare o meno un EP insolitamente lungo. Si è poi deciso per un full length, il nono e più breve della loro carriera, della durata di circa trenta minuti. Ma sono trenta minuti della densità di una nana bianca.


"Bad Witch" segna da un lato il ritorno dell'act alle ruvidezze industrial delle origini, quelle abbandonate all'inizio degli anni 2000, dall'altro la prima vera incursione in territori estranei al rock. Tra tutti spicca il jazz, particolarmente evidente nell'uso che Trent fa del sassofono in "God Break Down The Door" (brano pubblicato come singolo in occasione del suo 53esimo compleanno) e nello strumentale "Play The Goddamned Part". Infine, l'album è un personale tributo a David Bowie ed al suo canto del cigno "Blackstar" del 2016, evocato e citato a più riprese lungo il disco.


"Shit Mirror", che apre le danze, è il brano dallo stile più riconoscibile, l'unico in cui riusciamo a decifrare una chitarra elettrica, quasi un'introduzione alle novità che seguiranno, ma già ne abbiamo qualche anticipazione nel sedimentarsi delle numerose sovraincisioni, nella filtratissima voce di Trent: un pezzo che sembra inciso ventimila leghe sotto i mari. E poi c'è quel silenzio improvviso dopo circa due minuti, una frattura, un vuoto che spalanca un nuovo climax. Il gruppo satura il suono, lo tende, lo rilascia, giocando con le aspettative dell'ascoltatore. Già pesantemente filtrata, la voce di Trent diventa quasi irriconoscibile, distorta, flangerata, ossessiva nello sbilenco drum 'n' bass di "Ahead Of Ourselves" che dà voce alla volontà di superarsi, andare oltre. Così, nel procedere industrial del pezzo, quasi si trapassa inavvertitamente nello strumentale di "Play The Goddamned Part", lontano dal rock e prossimo all'experimental jazz; un jazz modulare, per giustapposizione di incisioni e per stordimento e che, nel gioco di mettere e togliere, rasenta la psichedelia. Il titolo sembra evocare, incrudelendola, l'ironia del fortunato singolo del 2015 "Copy of A".


L'obiettivo della Strega Cattiva è far perdere la bussola all'ascoltatore, condurlo al centro del pericolo e lasciarvelo. "God Break Down The Door" è a livello atmosferico quasi uno sviluppo della traccia precedente: qualcuno, una voce persa nell'etere e nel rumore bianco, chiede a Dio di aprire la porta, liberarlo. La voce è di Trent, ma sembra proprio quella del Duca Bianco in "Blackstar": più che una citazione ed un omaggio, l'effetto è quello di un'evocazione spiritica. Pezzo nervoso e attraversato da un'inquietudine che sembra non potersi risolvere neppure nel volo a gravità zero della successiva "I'm Not From This World". La pista più ardua e sperimentale, punteggiata da una pulsazione tellurica che ci abbandona dopo circa un minuto e mezzo per farci affondare nelle profondità dei bassi digitali.

 

Dopo quattro minuti siamo nel nulla, galleggiamo tra Betelgeuse ed Alpha Centauri e preghiamo che uno spaziocargo di passaggio ci raccolga prima che termini la riserva di ossigeno... sul finale la ritmica viene a recuperarci, con ironia e distacco. Si tratta di un lavoro da ascoltare tassativamente ad occhi chiusi e con le cuffie, senza intrusione del mondo esterno: un'esperienza immersiva, che confina in più di un occasione con la pura ambient music.


Dopo tanta sublime vastità, "Over And Out" sembra un finale di tono minore, quasi uno scherzo, con quel suo incedere upbeat tra minimal e IDM, eppure dopo due minuti di convenevoli, eccoci a galleggiare nuovamente in un mare di azoto e, dopo tre, finalmente pulita e riconoscibile, la voce di Trent ci conduce a lidi a noi più familiari; siamo dalle parti di "Hesitation Marks" e delle sue sonorità. O almeno pensiamo di esserlo: «Time is running out...». Le voci ed i suoni si sfibrano in una dilatatissima eco, si chiudono i canali, il suono svanisce in un lentissimo fade out di circa due minuti. Rumore bianco.


Ancora una volta, la band supera sé stessa e quello che potevamo aspettarci da lei, confezionando uno dei suoi migliori lavori, molto diverso da "Hesitation Marks", più sperimentale e meno accattivante, ma anche più spirituale. Industrial sì, ma anche lento, subliminale, meditato. I NIN volevano rischiare ed hanno centrato il colpo. Ricordiamo qui lo splendido cameo della band, la scorsa estate, nella terza stagione di "Twin Peaks" del grande David Lynch: a loro è spettato l'onore di accompagnare la puntata chiave della serie, l'ottava, che consigliamo ad ogni fan del combo di vedere (tranquilli, si gode anche senza vedere l'intera serie!).


I Nine Inch Nails volano sempre più in alto e chissà dove li condurrà ancora l'estro ed il gusto di scioccare l'ascoltatore: speriamo continuino a farlo.





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