Come figlia di Siouxie Sioux e cugina di PJ Harvey, Mitski non è mai stata troppo convincente. Sarà per la metà nipponica che “infesta” il suo DNA, ma la cantautrice americana ha sempre dimostrato un’eccessiva pulizia ed ordine, anche quando cercava disperatamente di convincerci del contrario.
Uscita da una meravigliosa adolescenza artistica incisa sullo scorso “Puberty 2”, oggi Mitski si presenta con un’opera adulta ma non troppo, caratterizzata da un sound che si sposta pesantemente verso un senso retro-vintage a cavallo tra gli anni ’60 ed i ’70, focalizzando il perno compositivo non più sulla chitarra elettrica (comunque presente, anche se relegata quasi dietro le quinte), bensì sul pianoforte, l’hammond ed il moog.
E’ già tutto lì, nel travolgente impeto elettronico che assale, pian piano dal basso, il ritornello in crescendo dell’iniziale “Geyser”, ed il concetto poi si sviluppa meglio tra melodie che sembrano uscite da comedy demodé (gli ottoni della perfetta sintesi delle idiosincrasie del sentire al femminile di “Why Didn’t You Stop Me?), homerun theme dove però al posto della palla da baseball c’è il cuore dell’artista e la mazza è la sua disillusione (“Washing Machine Heart”) e scanzonati rag che ricordano la prima Regina Spektor (“Me And My Husband”), forse anche per il modo in cui il pianoforte abbraccia con estrema naturalezza l’evoluzione disco dei synth del primo singolo “Nobody”, dove Mitski osa farci venire alla mente, sul finale, la migliore Mina di quarant'anni fa.
L’anima più rock, ruvida e punk è ancora presente anche qui (“A Pearl”, “Remember My Name”), ma – a differenza del passato – è infesta di questa vena melodico-retrò che dona un corpo ed una robustezza inedita alla musica di Mitski, ed è poi chiaro come l’artista nippo-americana preferisca di gran lunga a questo giro le atmosfere crepuscolari della ballad country (“Old Friend”, “Lonesome Love”, “Come Into The Water”) alle fumose e sballate riot songs in rosa.
C’è spazio anche per una placida parentesi malinconica (la doppietta “Pink In The Night” e “A Horse Named Cold Air”), che sfocia nel classico finale lento ed epico, quasi messianico, di “Two Slow Dancers”.
E se proprio a tutti i costi si deve cercare un senso di continuità coi quattro dischi che l’hanno preceduto, in “Be The Cowboy” ci si sente a casa soprattutto leggendo i testi, che rimangono incredibilmente diretti e sferzanti, ironici quando serve ma, soprattutto, sempre e comunque eleganti, come ogni confezione nipponica impone.
Parlando di confezione, quello che sorprende di questo disco è che, a dispetto della sua cover impostata sul bianco, la musica di Mitski oggi ha acquisito un insospettabile carico di colore: un senso di compiutezza ed armonia che solo l’ispirazione più intesa e focalizzata riesce a costituire.
Il classico capolavoro, il peso campione con cui, d’ora in avanti, la quasi adulta Mitski dovrà confrontarsi per affrontare con serenità la “vecchiaia”.
Non vorremmo essere nei suoi panni.