Ci sono delle foto di lui agli angoli delle metropolitane con una chitarra e uno sguardo di dissenso misto a sfida, ci sono delle foto di lui abbracciato a Paul McCartney, ci sono delle foto di lui a ritirare il premio Mercury. È un cantante o un poeta? È quinto di cinque ed è biblioteca di aneddoti famigliari, è tenore su di un palco minimale ma solenne e luminescente in ritornelli unici e intensi, è artisticamente un ibrido ed è da essi che, spesso, il meglio appare lampante. Luce in una raccolta di malinconia.
A quasi un anno dalla sua uscita, la bellezza di At Least For Now – esordio carico di maturità, esercizio di sinergia tra chiaroscura tristezza e amorevole commiserazione – è più facile da catalogare tra i Top Album del 2015. Una rivoluzione francese in terra isolana, Benjamin Clementine è ciò che si spera rimanga tale incontaminato, perché frutto di poche – ma potenti – contaminazioni sonore ed esistenziali. Forgia riflessi fluo dai violoncelli, crea ponti tra strutture in continua evoluzione, canta di sguardi che spaventano più delle stesse parole con cui li descrive. Egli è poeta, congiunzione estemporanea tra cantante, compositore e fatalista cantastorie. Un menestrello dell’opera. Un Dylan orchestrale dei nostri giorni.