A cinque anni dall'ottimo "From The Ages" (2013), gli Earthless, dopo essersi chiusi in quei Rancho De Luna Studios che hanno visto Kyuss e Queens Of The Stone Age produrre cavalcate profumate di deserto e mescalina, tracciano, con il nuovo album "Black Heaven", traiettorie meno frequentate nel corso della carriera. Da sempre dedita a un instrumental rock centrifugante blues, hard e psichedelia, la band questa volta decide di puntare sull'utilizzo della voce nella maggioranza delle piste, costruendo brani che, se non rinunciano all'abituale running time da competizione, tuttavia si distinguono per intelligibilità e scioltezza. Un'iniziativa, complice la distribuzione targata Nuclear Blast, che avvicina il gruppo a un sound connesso alla riscoperta del passato e volto maggiormente in direzione mainstream: una miscela di Jimi Hendrix, Cream e Led Zeppelin in salsa stoner, nella quale le evoluzioni delle sei corde del singer Isaiah Mitchell si ergono a protagoniste assolute, relegando in secondo piano il pur pregevole contributo della sezione ritmica di Mario Rubalcaba e Mike Eginton.
Il platter si apre con "Gifted By The Wind": groove irresistibile e linee di chitarra intrise di wah per una traccia che sin dal principio sembra ricamata su misura per una crociera in Cadillac Eldorado lungo l'interstate 45 e il vento tra i capelli. Piuttosto conciso e focalizzato su una cateratta continua di riff, il pezzo possiede un'innegabile sensazione "classica"; un'atmosfera da bignami seventies che continua sia in "End To End", una sorta di aggiornamento contemporaneo di "Voodoo Child (Slight Return)", sia nel jamming di "Electric Flame", nel quale i musicisti edificano un andirivieni di fughe incandescenti da improvvisazione controllata. Mentre la breve stoccata "Volt Rush" trascina i ZZ Top nelle macchie xerofile australiane, la title-track rientra nello standard consueto degli Earthless attraverso un tour de force di fraseggi carichi di effetti e suggestioni psych: uniche schegge puramente strumentali che anticipano la conclusiva "Sudden End", epica downtempo in cui i solo del guitar hero dall'ugola nasale rappresentano perfettamente quell'unione di spontaneità e progettazione che innerva l'intera opera. L'incendiario live set può dirsi terminato.
Un disco come "Black Heaven" rischia di frastornare l'ascoltatore avvezzo a considerare gli Eathless un terzetto in grado di creare assemblaggi liquidi tirati in acido sbriciolanti il concetto stesso di struttura compositiva: il processo di relativa normalizzazione se da un lato accresce la visibilità commerciale dell'act di San Diego, dall'altro ne snatura la carica sperimentale e funambolica. Benché il ricorso a sonorità appartenenti a un patrimonio ampiamente sfruttato banalizzi in parte un LP in odore d'alta classifica, l'abilità di Mitchell nel servirsi con nonchalance di diversi registri stilistici e la padronanza totale della sua Fender salvaguardano il lotto dal revival asfittico e troppo prevedibile. Per un inabissamento elettrico nei circuiti della tradizione.