Filastrocche e distorsioni, cubi di Rubrick e suoni brevettati. Umorismo e generazioni, oggetti del quotidiano che divengono messaggeri di epoche. La banalità è riscoperta, e anche la polvere è protagonista. Something new, something you, something you'd e Sonic youth.
Il ritorno dei Blur ha fatto più notizia della qualità effettiva della materia del ritorno stesso. Un comeback rumoroso e luminescente, preannunciato grazie all'ascesa definitiva del progetto solista di Damon Albarn, precursore promozionale di quello che, prima di attuarsi, era un contenuto già sul podio delle top news del lustro. Ma non vi è magia, non vi è attrazione o orgoglio nel frastuono a tratti beatamente post punk, a tratti sessantino di "The Magic Whip". L'ottavo album dei Blur è somma in potenza. Malinconico e riflessivo, tetro al pari di "Everyday Robots", esso cela nella frenesia del consumismo piccoli momenti di gioco. È il dado della maturità a essere tratto: la band ritrovata scherza con la propria produzione, con la propria carriera, scanzonando e trascinando con uno stile autoritario, sia degenerativo che euforico, dodici pezzi impregnati di furente pazzia e cupa provocazione.
I Blur uniscono due emisferi, due millenni e due generazioni di fruitori musicali, rassegnati al confine di un destino non del tutto compiuto.