È evidente però che gli impegni contrattuali non sono ancora esauriti e che i nostri sono costretti a rilasciare ancora qualcosa sotto la label. Questa dunque la genesi di "Burning Bridges", figlia di costrizioni giuridiche e della scelta di Jon Bon Jovi di non chiudere per la via dura à la Van Morrison con un lavoro "fantasma", ma mandando più elegantemente tutti al diavolo con un disco di addio ("Sayonara, adios, auf wiedersehen, farewell, adieu, good night, guten abend / Questa è l'ultima canzone che potrete vendere, chiamiamola "burning bridges") che segue -tanto per cambiare- l'orientamento dell'eroe di sempre Bruce Springsteen nella sua ultima uscita "High Hopes": il tredicesimo album della band del Jersey infatti è un composto quasi esclusivamente di outtakes e vecchie composizioni lasciate da parte dal 2008 in poi, ora rielaborate, incise e confezionate cogliendo due piccioni con una fava, ossia congedandosi dalla casa discografica da una parte e producendo un "fan album" dall'altra, un regalo per i suoi aficionados che tanto gli vogliono bene e continuano -nel bene e nel male- ad acquistare i suoi album, in attesa del "vero e proprio" nuovo disco che dovrebbe vedere la luce il prossimo anno.
E badate bene, "Burning Bridges" merita di essere assolutamente giudicato in questi termini, appunto non come un "vero" disco, pena la considerazione di mero riempitivo nella discografia bonjoviana, anche se comunque superiore ai precedenti "Lost Highway" o "What About Now". Meglio analizzarlo come il lavoro da "white label" quale è (sin dalla copertina, paurosamente simile a "Songs Of Innocence" degli U2), in cui non vi è -per ovvie ragioni- da nessuna parte alcun filo conduttore tra le 10 tracce di qualità altalenante quasi tutte co-scritte con John Shanks o Billy Falcon, se non nell'essenza sintetica e poco "chitarrosa" e nella produzione eccessivamente commerciale che spesso amaramente seppellisce nell'anonimato David Bryan e lo splendido lavoro mai troppo riconosciuto di Hugh McDonald al basso. La prova vocale del caro vecchio Jon è da 18-e-tutti-a-casa, non sbilanciandosi mai e rischiando così a tratti la piattezza (insolitamente raggiunta nelle ballate -specialità del singer statunitense- e nell'opener "A Teardrop To The Sea", di mordente pari a zero), proprio come Tico che si risveglia soltanto sui due singoli "We Don't Run" e "Saturday Night Gave Me Sunday Morning" e nel migliore momento del disco, quella "Who Would You Die For" che suona come un episodio atipico ma sicuramente riuscito. Altrettanto interessanti "Fingerprints" e soprattutto "I'm Your Man" che oltre a sanare la frivolezza della precedente "Life Is Beautiful" ha il grande pregio di far risentire per un attimo con Shanks quel magico suono di chitarra smarrito con la dipartita di Mr. Sambo (e forse anche un po' prima). Ed è proprio in quel momento e nelle successive battute finali del disco che riesco ancora a rivedere per un attimo i vecchi Bon Jovi, beffardi cowboys ironici nella conclusiva title-track col suo country rock sprezzante, magari non più su un fiero destriero di acciaio, ma piuttosto su un cavallo selvaggio che a fatica li trascina via dalle grinfie della casa discografica.
Come per dire "C'è ancora speranza. Al momento, accontentatevi di questo presente. Il prossimo disco però sarà micidiale".
Così i Bon Jovi proseguono nel loro cammino e tagliano i ponti in fiamme legati ad un passato che non ha più niente a che fare con la situazione attuale, con i capelli grigi, con le cene alla corte di Obama o con la pretesa tipicamente americana di portare la propria musica verso nuovi lidi, israeliani o orientali che siano.
Vedremo dove riusciranno ad arrivare. Si diceva "ride, cowboy, ride". Per ora siamo ad un risultato modesto, ma -come si suol dire- a caval donato non si guarda in bocca. Certo, se avete dieci euro da buttar via procedete all'acquisto, altrimenti non è assolutamente eresia passare... il 2016 del resto non è così lontano.