Bruce Springsteen
Nebraska

1982, Columbia
Rock

In un periodo in cui era importante urlare, Springsteen decise di farlo in silenzio. Con il suo cantato quasi sottovoce, il Boss del New Jersey scrisse una pagina di storia e tracciò il suo secondo vero capolavoro, "Nebraska".
Recensione di Manuel Di Maggio - Pubblicata in data: 30/09/17

«Com'è difficile restare calmi e indifferenti quando tutti intorno fanno rumore», cantava Franco Battiato nella celebre Bandiera Bianca e come si poteva dargli torto? Siamo negli anni '80. Da un lato ci sono le danze sfrenate della disco music, da un altro i pezzi rapidi e sporchi del punk (e dei nascenti sottogeneri), da un altro ancora la new wave, sofisticata ed eterogenea ed infine l'altra new wave, quella dello heavy metal inglese. In tutto ciò, un album interamente acustico appariva come un'impresa piuttosto audace, degna solo di un grande artista. Egli si chiama Bruce Springsteen.
 
 
Il precedente "The River" aveva segnato la consacrazione del Boss nell'Olimpo dei più grandi del panorama rock. Era un album completo, variegato, con brani di stampo talmente classico da non invecchiare minimamente a distanza di quasi trent'anni. "The River" rappresentava in tutto e per tutto quella essenza del rock che, in tutte le sue sfaccettature, faceva da spartiacque nella prima parte di carriera del Boss. Ed ecco che, dopo due anni, Springsteen spiazzò tutti i suoi fan. Da brani rapidi, taglienti e vivaci, si passò a un terzetto minimale di chitarra acustica, armonica e voce. Qualcosa di inconcepibile nelle logiche del music business di allora e non solo. Invece di cavalcare l'onda del predecessore, Bruce se ne distaccò quasi totalmente, imponendosi di diritto nel mondo degli artisti che non erano semplicemente "artigiani" o "mestieranti".

 
C'è un celebre aneddoto dietro la realizzazione del disco. Dopo il successo di "The River", il leader della "E Street Band" si ritirò nelle campagne del suo New Jersey tentando un nuovo approccio al suo songwriting. Con sé aveva solo una chitarra acustica, un set di armoniche diatoniche, un registratore a quattro piste e poco altro. Dapprima le registrazioni in acustico dovevano essere solo delle tracce fantasma sulle quali i membri della "E Street Band" avrebbero dovuto incidere il consueto tappeto musicale già visto nei precedenti lavori. Alla fine, però, il Boss optò per spedire alla Columbia i brani originali, in acustico. Fu anche costretto ad operarsi in tutto e per tutto per convincere i produttori, il proprio manager e perfino i membri della band che, comunque, si unirono in live al loro leader portando le versioni orchestrali dell'album. Ne uscì un lavoro parecchio malinconico, grigio, oscuro... Springsteen attinse appieno dai vari Woody Guthrie e Bob Dylan, suoi padri spirituali, senza dimenticare romanzieri come John Steinbeck, portavoce dell'idea di un sogno americano ormai defunto. Peraltro, allo stesso Steinbeck e alla sua più celebre opera, "Furore", Bruce, nel 1995, dedicò "The Ghost of Tom Joad", seguito spirituale di "Nebraska".
 
 
Ancora una volta Springsteen si erigeva a cantore della middle class, degli outsider, di coloro il cui sogno era sfumato, ma stavolta lo faceva con un nuovo approccio, già in parte presente nei due precedenti lavori ma che qui trovava pieno compimento nell'intimismo più puro, avvolto da una coltre di nebbia e nostalgia, sensazioni dipinte alla perfezione già dalla copertina del disco: una foto in bianco e nero sgranata di una delle classiche "route" americane, vuota, e vista attraverso un parabrezza.
 
 
Pronti via, a farla da padrone sono le armoniche, gli arpeggi lenti e struggenti della title track, narrazione in prima persona di un condannato a morte. Dopo i quattro minuti di "Nebraska", è il momento di uno dei brani più celebri dell'intera discografia springsteeniana: "Atlantic City". Gli struggenti assoli di armonica, le sovraincisioni del Boss, sia vocali che di chitarra, lo rendono un capolavoro intramontabile della carriera del musicista di Asbury Park. Nei suoi live, Bruce la presentava come una canzone "molto dolce", forse per via del testo che tratteggia il progetto romantico di due amanti. La loro storia si interseca alle reali vicende della mafia di Philadelphia che, a quei tempi, gestiva anche il sud del New Jersey, tra cui Atlantic City, città morente che era stata rinvigorita dalla legalizzazione del gioco d'azzardo. Già dal primo verso viene citato il famoso gangster Philip Testa, detto "The Chicken Man", ucciso con un'autobomba a Philadelphia: "Well, they blew up the Chicken Man in Phillie last night / now they blew his house too". La delusione, però, fa anche parte alla speranza per un ipotetico riscatto futuro presente nel ritornello: "Everything dies, that's a fact / but everything that dies, someday comes back". Tutte le tematiche trattate rendono il testo di questo capolavoro uno dei più crudi dell'intera produzione del Nostro, soprattutto per l'atmosfera fosca che il testo riesce a creare. A tal proposito, la sua pubblicazione come singolo gli garantì l'aggiunta di un video trasmesso su MTV; la clip venne girata tutta in bianco e nero, con inquadrature sfocate, tagli rapidi e telecamere mosse, quasi come a voler citare, oltre al testo, anche la copertina.
 
 
"Mansion on the Hill" riprende lo stilema più intimista e minimale di "Nebraska" e, ad essa, si unisce anche "Used Cars", la settima traccia. Si parla di economia, di povertà, dei falliti. Il sogno di una villa su una collina e della tranquillità economica che essa potrebbe presupporre "Mansion on the Hill", sembra quasi una lettera scritta da un seguace di Steinbeck a un suo contemporaneo, F. Scott Fitzgerald, anch'egli parte della cosiddetta "generazione perduta" ma con caratteristiche appartenenti a un mondo diverso, soprattutto se si pensa alle ville e alle feste de "Il Grande Gatsby" o a "Belli e Dannati". La vergogna di dover prendere un'auto di seconda mano per impossibilità economica la fa da padrone in "Used Cars", brano che, a differenza di "Mansion on the Hill", si priva di cori e sovraincisioni ma non rinuncia all'armonica.

 
"Johnny 99" riprende tematiche simili alla title track, raccontando la storia di un condannato a morte per omicidio il quale si è spinto oltre, più per necessità che per altro e che, comunque, non troverà pace o comprensione dalla legge. Lo stato e le leggi sono ancora disquisite in "Highway Patrolman", traccia che racconta la storia di Joe, poliziotto, e del fratello Frankie, assassino. Joe, costretto a scegliere tra la patria e la famiglia, opterà per lasciar scappare il fratello in Canada, valicando quel confine che mai si sarebbe immaginato di dover infrangere. Ad "Highway Patrolman" è anche dedicato il film "Lupo Solitario (The Indian Runner)", scritto e diretto da Sean Penn, con David Morse e Viggo Mortensen. La pellicola racconta la storia di Frankie e Joe, apparendo quasi come una lunga citazione al brano di Springsteen - che figura anche tra i crediti.

 
La successiva "State Trooper" prosegue il discorso delle autorità, dello Stato, viste più come delle figurine, come delle entità. Malgrado siano spesso citate nella sua produzione. Springsteen le dissocia, ne crea una versione umana quando necessario, altrimenti le dipinge come personalità quasi gelide, artefatte. A questo aggiungiamo la crisi economica, le propagande politiche di stampo reazionario che caratterizzarono la successiva elezione del repubblicano Ronald Reagan, presidente tanto acclamato dai sostenitori quanto deprecato dagli oppositori che trovarono un portavoce proprio in Springsteen e nel successivo "Born in the USA". Non manca, come da tradizione springsteeniana, il viaggio in auto, stavolta trattato da un punto di vista diverso: la personale osservazione di un qualunque individuo da dietro il parabrezza della sua macchina, mentre si dirige verso una destinazione oscura, se non verso il nulla, "Open All Night". Peraltro, questa canzone, può porsi come la presenza più vivida del rock and roll in questo disco, anche se più da un punto di vista concettuale. A "Open All Night" fanno seguito le ultime due tracce dell'opera: "My Father's House" e "Reason to Believe", molto diverse tra loro. La prima si pone su un piano nostalgico e accetta ancora una volta l'impotenza e l'incapacità di cambiare le cose. Dedicata al rapporto con il proprio padre, difficilmente risanabile, è intrisa di nostalgia, dandosi ancora una volta per vinto. "Reason to Believe", invece, si pone su un altro piano, andando a opporsi all'opera intera. Propone un barlume di speranza, un sentimento di riuscita futura, di rivalsa. È quasi un contrappunto che tenta di dare un senso a più ampio raggio all'intero disco.
 
 
In un periodo in cui era importante urlare, Springsteen decise di farlo in silenzio. Con il suo cantato quasi sottovoce, i suoi due strumenti, il suo difficilmente eguagliabile songwriting, il Boss del New Jersey, scrisse una pagina di storia, tracciò il suo secondo vero capolavoro nel suo stile, con ciò che scorreva nelle sue vene. Quando giungerà "Born in the USA", caratterizzato dai suoi riff potenti, dai sintetizzatori digitali e dal successo planetario, Springsteen diventerà anche un fenomeno di massa, senza snaturarsi ma con evidenti dedizioni anche ad un altro pubblico. È per questo che "Nebraska" rimane tanto uno snodo fondamentale per l'ascoltatore per capirne appieno la carriera, quanto per lui uno strumento per comprendere se stesso. Come infatti ha spesso ammesso dal Boss medesimo, ogni qualvolta si è sentito che qualcosa gli stava sfuggendo di mano, è ritornato a quel periodo di contemplazione trascorso nelle brughiere del New Jersey. Lo ha ampiamente dimostrato con il già citato "The Ghost of Tom Joad", con gli anni passati in solitaria - senza l'apporto della "E Street Band" - e, come ha recentemente dichiarato in un'intervista, con la volontà di fare un nuovo album totalmente acustico. A distanza di anni, "Nebraska" rimane il culmine della poetica del Boss. L'album dove più spiccano le sue qualità da narratore, da scrittore, da poeta. Pura arte.




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