Cannibal Corpse
Kill

2006, Metal Blade Records
Death Metal

"Kill": la storia del genere in una delle sue massime espressioni
Recensione di Stefano Risso - Pubblicata in data: 28/05/13

Molto spesso avere una carriera mostruosa alle spalle, milioni di dischi venduti (tanto da essere la band death metal numero uno in questa classifica), lo status di formazione culto e migliaia di nuovi adepti che saccheggiano la tua discografia, non è sufficiente a mantenere la giusta considerazione e attenzione su di sè. È come se si dovesse sempre superare il prossimo esame, tenere alta tensione, far sentire la propria presenza con vigore, pena l’oblio.

Ovviamente per una band come i Cannibal Corpse il termine oblio è volutamente esagerato, ma sul finire degli anni novanta e l’inizio del nuovo millennio i nostri non se la passavano certo bene. Intendiamoci, dischi (buoni per giunta) e tour a supporto non sono mancati, eppure si guardava ai Cannibal Corpse come a una band ormai prevedibile e sul viale del tramonto, dove è il mestiere che parla a scapito di quella forza originale che ha permesso di raggiungere i traguardi elencati sopra. Tutto questo fino al 2006 (per la precisione qualche mese prima), quando cominciarono a girare i rumors su quello che sarebbe stato il decimo album in studio: line-up rinnovata, con l’ingresso dello storico Rob Barrett al posto dell’altrettanto storico Jack Owen, un titolo che più chiaro non si poteva, una copertina che abbandonava lo stile fumettoso per qualcosa di terribilmente scarno (che fece storcere il naso ai più) e la produzione affidata a Erik Rutan, da lì in poi sempre più richiesto e apprezzato.

Probabilmente non staremmo qui nel 2013 a parlare di “Kill”, se non fosse che anche e soprattutto il contenuto musicale rappresentava finalmente qualcosa da ascoltare con attenzione. Non più “l’ennesimo disco”, ma finalmente “il disco” dei Cannibal Corpse che si attendeva da diversi anni a questa parte, in grado di reggere il confronto col passato ingombrante aggiungendo nuova linfa al supercollaudato stile dei macellai di Buffalo. Rinnovare se stessi senza cambiare praticamente nulla, ribadire la propria supremazia su messe di cloni, avere l’intelligenza di carpire quanto di buono fatto dalle nuove leve e metabolizzarlo in modo personale. Tutto questo è “Kill”, un parto così fortunato da permettere ben due dischi di “rendita” come “Evisceration Plague” e “Torture”, dagli esiti alterni.

Abbandonati i ritmi e i suoni fangosi che avevano decisamente affossato le produzioni precedenti, i Cannibal Corpse si presentano più diretti e ficcanti che mai, sapendo unire un senso della melodia molto pronunciato, sempre molto oscuro e sinistro, in un’intricatissima rete di riff e cambi di regime da urlo. Una nervosità (non sapremmo come meglio definirla) delle chitarre O’Brien/Barrett che infonde un senso di potenza anche nei frangenti più groovy, come se ci fosse sempre una sorpresa dietro l’angolo, un’inquietudine sottile sorretta da una violenza senza eguali. Questo è probabilmente quello che differenzia “Kill” dalla produzione passata e futura dei nostri, un rinnovato connubio tra la sete di death brutale e groove, melodia e passaggi da varvi sfivare il cranio a furia di headbanging, immediatezza e ricercatezza del songwriting. Il tutto con una produzione che, possiamo dire a distanza di anni, ha fatto scuola, forte di un’aggressività che non preclude la definizione dei suoni e la percezione di ogni minimo particolare persino nei momenti più agitati.

 

Il classico colpo di reni che non ti aspetti, l’apertura di una nuova fase/giovinezza della carriera dei Cannibal Corpse, “Kill” è talmente fresco e inesorabile da dubitare che sia stato fatto da una formazione che esordì nel 1990, la massima espressione moderna di cosa voglia dire suonare death metal senza scadere nei soliti clichè, violentissimi senza eccedere in gare di velocità, immediati nonostante il grandissimo livello di scrittura raggiunto, incredibilmente tecnici senza precludere il feeling delle composizioni. In poche parole, la storia del genere in una delle sue massime espressioni.





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