La volta scorsa Caparezza lo avevamo visto intrappolato in una prigione troppo familiare quanto ineludibile, quella della propria psiche, alle prese con acufeni e ossessioni senza tregua. Dopo quasi quattro anni è riuscito a rompere le maglie che lo tenevano intrappolato nell'ultimo "Prisoner 709" e nella notte "fantasiosa" (cit.), Michele Salvemini si è tuffato in una corsa a perdifiato fra alberi e sterpi come in un prologo dantesco. Perduta la "diritta via", le alternative sono due: lasciarsi sopraffare, o lasciarsi cambiare. Exuvia è il racconto di questo secondo sentiero. Una metamorfosi spiegata prendendo in prestito concetti dal mondo degli invertebrati: "Exuvia". La muta dell'insetto, il simulacro di una fase passata che allude alla rinascita, simboleggiata nella copertina da due cerchi concentrici e una spirale che li unisce. Vita e morte, resilienza e trasformazione. In una parola: il "passaggio". 14 canzoni e 5 skit (che non si vedevano dai tempi di "Habemus Campam") ci spalancano le porte di un'interiorità narrata senza barriere, situata in un'atmosfera nebulosa e a volte tribale, quasi sempre spietata come la natura stessa. Accanto ad essa capeggia la bussola dell'arte, contraltare spirituale, donatrice di significato verso cui tendere.
Nella sua dichiarazione di intenti che farà impazzire i fan di lunga data, intitolata "Canthology", il signor Capa ritratta un passato che sembra stargli stretto. Come di ritorno da un incubo, scandaglia tutti i ricordi della sua carriera che si fanno immagini, o meglio fantasmi al ritmo del leitmotif "Get Away", stornellato da Matthew Marcantonio (frontman dei Demob Happy) che ci ricollega alla "Prosopagno Sia!" del precedente album. Recitando i versi di Dino Campana, il poeta fuggiasco per eccellenza, Caparezza racconta di una turbolenta evasione ("In fuga dal mio disco precedente") con "Fugadà", dove al di là dei muri inizia una foresta forse ancor più spaventosa. Il richiamo della natura che assume forme di un canto estatico, un'allusione alle Sirene che tentarono Ulisse.
Da queste prime rappresentazioni, Exuvia emerge come un disco che meriterebbe di essere illustrato talmente vivido è l'immaginario trasmesso. Non a caso il suo autore lo ha definito il suo disco più "cinematografico", essendo sempre più attratto in questa fase creativa dal surrealismo felliniano. E dunque numerosissimi anche stavolta i riferimenti al cinema, da Hitchcock a Tarantino, e poi i classici della letteratura e della musica, dell'arte. La penna di Caparezza è sempre affilata come una forbice, rivolta più verso di sé come oggetto e soggetto delle riflessioni amare e spesso desolanti, invettive che nei primi dischi bersagliavano molto di più la società. Pochi ma mordaci i riferimenti politici in "Exuvia". La bordata al gangstar rap italiano e all'immobilismo in "Come Pripyat", la città ucraina un tempo polo tecnologico abbandonata dopo il disastro di Chernobyl; e poi "El Sendero", eseguito insieme alla sublime interpretazione di Mishel Domenssain, che invita riflettere sul ciclico riproporsi delle difficoltà che un uomo incontra lungo l'impervio cammino che chiamiamo vita.
Il vero valore aggiunto lo si trova negli arrangiamenti. Un lavoro di squadra che punta alla perfezione in fase di produzione con parti strumentali di levatura internazionale e sempre bilanciate. Che si tratti dei chitarroni di "Eterno Paradosso" o di "Eyes Wide Shut", oppure delle stilettate elettroniche di "Contronatura", o del folklore di "El Sendero", Caparezza riesce non solo a dare coerenza all'insieme, ma anche a sentirsi a suo agio nei contesti più dissimili. E se ci è voluta una crisi personale a trasportare il rapper molfettese nella modernità (l'annuncio del singolo "Exuvia" rappresenta la sua prima storia su instagram) ben venga. "Exuvia" non è un disco facile da raccontare, non è un fuoco di paglia che arde vivace al primo ascolto per poi spegnersi gradualmente. È un disco dentro cui immergersi immaginando di essere protagonisti. In questo l'abilità retorica di Caparezza ci viene in soccorso, prestando voce agli stati d'animo che difficilmente sapremmo descrivere con altrettanto acume.
"Exuvia" un prodotto che in Italia non si vedeva da tempo: un disco composto di belle canzoni, al netto di qualche riempitivo ("Il mondo dopo Lewis Carrol", "Azzera Pace"), con alle spalle un concept importante e supportato dalla qualità compositiva. L'assenza di una hit radiofonica è poi un segnale non trascurabile sulla linea artistica intrapresa. Ne "La Scelta" costruisce il dialogo fra due geni musicali del loro tempo: Ludwig Van Beethoven e Mark Hollis, compianto frontman dei Talk Talk, come modelli contrapposti di due scelte di vita. Il primo dedicatosi corpo e anima alla musica per sconfiggere l'oblio, l'altro, all'apice della fama, ritiratosi per vent'anni a vita privata fino alla sua morte ("Mi piace il silenzio. Mi ci sento perfettamente a mio agio, sai, non mi crea problemi" raccontava nelle interviste) senza scendere a compromessi con la sua arte. Ed è forse in questo disco spartiacque per la carriera di Michele Salvemini che si propone il tema della scelta. Come fare a rendere al meglio la propria idea e al contempo accontentare chi ti supporta? Dov'è il limite tra quello che voglio io e ciò che gli altri vogliono da me?
Difficile trovare una soluzione più convincente di questa.