Pop Rock con voce suadente, canzoni orecchiabili e ruffiane quanto basta per assicurarsi una rotazione radiofonica. Aggiungiamoci qualche lieve orchestrazione e delle linee vocali che, qualora viaggiassero su un paio di toni sopra, potremmo essere davanti alla versione più leggera di Matt Bellamy dei Muse. C’è anche qualcosa di Jeff Buckley in quei gorgheggi, ma non diciamolo troppo a voce alta, altrimenti rischiamo il linciaggio.
Ma... c’è un “ma”, e sta per “Ma non etichettatelo subito come ennesimo artistucolo pop gettato nella tonnara odierna”.
Charlie Barnes è un ragazzo dall’indubbio talento, scuola inglese a doppia lama che può far felice sia lo stuolo di adolescenti in perenne ricerca di qualche colonna sonora per le proprie vicissitudini d’amore, sia chi è in cerca di un pop che concede all’orecchio più attento sfumature ricercate e strutture che, per quanto semplici, manifestano un’indubbia pregevolezza costruttiva. Il grande pregio di questo ragazzo di Leeds è proprio questo, ovvero saper fare convivere brani orecchiabili come la title track e “Sing To God” con ben più tetri episodi come “Balloon”. Sarebbe bello che venisse approfondito e spinto maggiormente questo lato, meno esplosivo a livello di refrain ma ben congegnato nella sottile eppure robusta struttura, piuttosto che i pezzi più “faciloni”, perché il pericolo è che di incappare in un giudizio fuorviante nei confronti di Barnes, il quale si dimostra molto più eclettico (e capace di esserlo) di quanto si possa inizialmente percepire. L’unico episodio davvero debole è “Film”, che con i suoi 4 minuti e 44 secondi solo voce e piano spezza fin troppo il ritmo e le oscillazioni del disco.
“More Stately Mansion” cela qualità inaspettate che lo rendono un ascolto interessante, curioso, lodevole, sperando che brani pensati per rientrare maggiormente nei canoni del “radio friendly” non traino troppo in inganno. Consigliato per il Seth Cohen di turno, ma anche per l’ascoltatore dal padiglione auricolare un po’ più esigente.
Ma... c’è un “ma”, e sta per “Ma non etichettatelo subito come ennesimo artistucolo pop gettato nella tonnara odierna”.
Charlie Barnes è un ragazzo dall’indubbio talento, scuola inglese a doppia lama che può far felice sia lo stuolo di adolescenti in perenne ricerca di qualche colonna sonora per le proprie vicissitudini d’amore, sia chi è in cerca di un pop che concede all’orecchio più attento sfumature ricercate e strutture che, per quanto semplici, manifestano un’indubbia pregevolezza costruttiva. Il grande pregio di questo ragazzo di Leeds è proprio questo, ovvero saper fare convivere brani orecchiabili come la title track e “Sing To God” con ben più tetri episodi come “Balloon”. Sarebbe bello che venisse approfondito e spinto maggiormente questo lato, meno esplosivo a livello di refrain ma ben congegnato nella sottile eppure robusta struttura, piuttosto che i pezzi più “faciloni”, perché il pericolo è che di incappare in un giudizio fuorviante nei confronti di Barnes, il quale si dimostra molto più eclettico (e capace di esserlo) di quanto si possa inizialmente percepire. L’unico episodio davvero debole è “Film”, che con i suoi 4 minuti e 44 secondi solo voce e piano spezza fin troppo il ritmo e le oscillazioni del disco.
“More Stately Mansion” cela qualità inaspettate che lo rendono un ascolto interessante, curioso, lodevole, sperando che brani pensati per rientrare maggiormente nei canoni del “radio friendly” non traino troppo in inganno. Consigliato per il Seth Cohen di turno, ma anche per l’ascoltatore dal padiglione auricolare un po’ più esigente.