Chris Cornell
Euphoria Morning

1999, Interscope
Alternative Rock

Recensione di Riccardo Coppola - Pubblicata in data: 22/10/14

Correva la metà degli anni Novanta, e il rapporto di Chris Cornell col rock smise di essere un felice e prospero matrimonio spirituale, diventando come minimo una relazione complicata. Riscritte parzialmente le regole del grunge insieme ai Soundgarden grazie a un filotto apparentemente inarrestabile di album stupefacenti, l'ormai ultratrentenne ex-urlatore di Seattle cercò la consacrazione lontano dalla band che l'aveva lanciato nell'olimpo dei frontman più carismatici e dotati dell'intera scena musicale a stelle e strisce, cercando per la sua caratteristica voce una nuova primavera e nuovi confortevoli lidi in un'avventura da solista.

 

"Euphoria Morning" nasce dopo una gestazione lunga tre anni, frutto di un lavoro a fianco dei produttori-musicisti Alain Johannes e Natasha Shneider e del riprendere in mano una lunga serie di composizioni tenute nel cassetto in quanto ritenute -per ovvi motivi di cantautoriale leggerezza- indeguate per il "Badmotorfinger" o il "Superunknown" di turno. Seguendo il percorso di ammorbidimento di "Down On The Upside" ma allontanandosi -se non per qualche episodio- dai suoi cupi anfratti per abbracciare una rassicurante luminosità, la voce del buon Chris smette di cimentarsi in tortuose scalate verso inimmaginabili acuti e in dolorosi arrochimenti, adagiandosi su calde, calme vie di mezzo: ad essa vengono affidati tentativi di fuga da amori tormentati -che paiono al tempo stesso lotte intestine con demoni del passato- nel pop acustico del singolo "Can't Change Me", struggenti attimi di contemplativa passione nell'intenso piano-soul di "When I'm Down" e nell'acustico gioiello "Sweet Euphoria", agrodolci dediche alla memoria del compianto collega Jeff Buckley nella tenue esuberanza e sui timidi arpeggi acustici di "Wave Goodbye".

 

Pervaso da un alone di inattaccabile grazia che perdura immutato dalla prima all'ultima nota, "Euphoria Morning" fallisce però in quello che forse era il suo principale obiettivo, ovvero ricreare una collaudata, complessa e depressa poetica al di fuori di confini delineati dal ruggire delle chitarre: tentando d'infiltrarsi nel mondo mainstream il songwriting di Cornell finisce per caracollare in un pop adesso abbastanza grossolano (le scarse pretese di "Flutter Girl") adesso abnormemente melenso (i cinque interminabili minuti di "Preaching The End Of The World"). E trovando asilo, come prevedibile, nei pochi residui di chitarre elettriche di una devastante, apocalittica "Steel Rain".





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