Ultha
Converging Sins

2016, Vendetta Records
Black Metal

Cederemo alla fascinazione, al mistero del labirinto che sovverte il tempo; e non potremo disertare, con gli Ultha, il tempio dell'ascolto.

Recensione di Marco Migliorelli - Pubblicata in data: 13/02/17

E se Eco fosse un labirinto? Saremmo oltre la purezza classica, cristallina del mito, saremmo un riverbero del respiro, nella trama fitta del tempo presente. Saremmo anche nella consapevolezza per cui "dove non c'è Eco, non trovano descrizione né lo spazio, né l'amore". I tedeschi Ultha presentano il loro secondo album con queste parole dello scrittore Mark Z. Danielewski, e hanno subito il merito, prima ancora che una sola nota graffi l'anima e ne divori le energie più cedevoli alle lusinghe dell'empatia e della consonanza, di farci conoscere il suo romanzo singolare, "Casa di Foglie", un libro che è un labirinto, sospeso fra thriller, horror e critica letteraria. Parole, quelle dello scrittore, che ispirano i 63 minuti di musica di "Converging Sins", una variazione sofferta sul tema di Eco come memoria e sul modo in cui le azioni compiute stringano un nodo insolubile fra le tre dimensioni del tempo: passato e futuro, determinando un intreccio fatale.


Nel presente, invece, l'ascolto del disco si fa densamente psichico ma senza tradire un'accurata attenzione al lato più istintivo, naturale della nostra umanità, quella che reclama a gran voce l'abbandono, il rilascio emotivo, cui meglio aderisce l'aspetto più ruvido, black, della formazione tedesca.


L'imponenza dei brani orbita attorno ad una circolarità massiccia del riffing, spesso però sostenuta da cambi ispirati, sapientemente articolati: un lucido, e a tratti allucinato, sbandare progressivo che salva i brani dalla trappola della ripetitività, come nella riuscitissima, travolgente "The Night Took Her Right Before My Eyes".
Ben 17 minuti di ruvido black metal e lucido assetto melodico delle chitarre, divise fra i suoni più taglienti, corposi delle singole note scandite, rasoiate nei passaggi introduttivi ed il muro sonoro in più stretto rapporto con la batteria con i suoi cambi di ritmo. Il brano affascina e seduce anche l'orecchio più scettico, reso diffidente dalla combo, spesso letale, di circolarità/minutaggio.


Posto in apertura, crea da subito forti aspettative su "Converging Sins" ed è, sicuramente, il suo brano più ispirato, insieme a "You will learn about loss", altro monumento di 14 minuti, aperto da un bel groove corposo di chitarra, che incide a fondo il solco dal quale prende le movenze e si snoda, sinuosamente una trama sonoro-emotiva dalla coralità profonda, prima ancora che dal solito screaming urlante.
Eccolo allora un precedente illustre e cascadico: "Wolves in the Throne Room". La lezione dei due fratelli Weaver propaga le sue suggestioni (shock musicale assicurato!) ma è sul piano tematico di fondo che gli Ultha si allontanano dagli americani, e paiono più vicini, per sensazioni ed immagini, agli Opeth di "My Arms, Your Earse". Non esiste infatti, in questo disco, la remissione naturale dei peccati dell'uomo, scandita dall'abbraccio celeste della wilderness cara agli americani. Il tempio degli Ultha erige le proprie colonne nel marmo di una constatazione eroica:


"Loss is all ad all is lost"


Come nel sovracitato album dei compianti Opeth, l'esplorazione musicale degli Ultha muove i suoi passi nel labirinto dell'anima e del tempo. Su questi cieli, dunque, "You Will Learn About Loss" ardisce i suoi pindarismi e nella circolarità di fondo, tiene attiva la funzione degli strumenti fino alla sua conclusione, quando, al 12 minuto, il drumming si assottiglia in una lentezza serrata con brandelli di basso grondanti spessore sonoro.
Il discorso prosegue in "Fear Lights The Path", ultimo colosso del lotto. Anche qui si resta sul piano funebre del dolore come forma conoscitiva dell'animo umano e mancano le recenti aperture del black all'abbraccio della natura o ad un sentimento del decadere reinquadrato nella pace dei cicli naturali.
Leggermente in calo, rispetto alle due rocciose composizioni precedenti, "Fear Lights The Path" sembra adagiarsi con maggiore indulgenza sulla ripetitività del riffing, salvo poi cercarsi e ritrovarsi con maggior convinzione e ricchezza nei suoi ultimi 6 minuti: un finale che risulta acerbo e promettente insieme.


Nota a parte per il missaggio che evita la pastosità dei suoni e rende così giustizia anche a ben tre piani vocali: due maschili ed uno femminile. I primi due si richiamano continuamente, descrivendo profondità immateriali: lo screaming urlante e forsennato (un mix fra Cult of Erinyes e Burzum), remoto, rispetto al piano di ascolto principale e una voce più profonda, tendente al growl, in una posizione intermedia. Tutte e due delineano uno spessore spaziale nel quale, attraverso il suono, è possibile visualizzare la controparte strumentale.
Questa duplicità crea spazio nell'esperienza di ascolto, che si allarga, percettivamente ma non rivela razionalmente i suoi limiti: il fine artistico, concettuale di rievocare la casa-labirinto della memoria, delle azioni, degli errori, delle scelte intraprese che si riverberano l'una sull'altra, in una eco continua di rimandi vocali è pienamente raggiunto.
"Mirrors In A Black Room". Ultima viene la voce femminile, quella della britannica Rachel Davies (co-autrice del brano), cantante degli Esben, e con essa il cuore pulsante fra le colonne di questo tempio sonoro.


"There we stood, under waves/ The ocean floor an ancient grave/ Undulating, sturm und drang/ Gnawing chalk from the dying lands/ The dying lands"


Sulle labbra di una donna pulsa il canto della vera malinconia di "Converging Sins". Specchi nella stanza oscura. Nulla di sulfureo in questa lenta decina di minuti: il dilatato appannaggio del doom, ribadito poi con più durezza nella successiva "Athame - Bane Emanations", con le chitarra più tradizionalmente "black oriented", s'arrende alla voce di eco-Davies, sirena le cui parole, insieme alla melodia che le sottende (un azzeccato, invitante giro di chitarra iniziale prepara il crescendo del brano), illuminano il fascino poetico della malinconia.
Forte il contrasto tematico. Forte anche quello sonoro, per la canzone che più rivela la profondità dei rimandi e la ricerca di un discorso musicale personale da parte degli Ultha. "Mirrors in a Black Room" traccia una storia a se stante, che strizza l'occhio alla ritualità delle Lotus Thief di "Gramarye" e lambisce nel modo più pulito, gli Wolves in the Throne Room più magnetici e meditativi di una -comunque ben più lenta e solenne-, "Woodland Cathedral".
Insolita e luminosa cesura, "Mirrors in a Black Room" svela con più evidenza le ambizioni degli Ultha; una tensione compositiva la loro, generosamente ribattuta, ferro al ferro, nella cura al dettaglio sonoro: la varietà di voci, la presenza non solo scenica di due chitarre, la sinergia di basso e batteria con i suoi cambi di tempo. Non ultimo anche il lavoro di tessitura "elettronica" -leggi atmosferica-, di Andy Rosczyk, dentro il disco e fuori, per via del suddetto, eccellente, lavoro di mixing.


La vista d'insieme non può che essere imponente, l'approccio d'ascolto certo non disinvolto ma non mancherà la passione dell'approfondimento, quel godimento anche cerebrale nell'assaporare, fra un abbandono istintivo e l'altro, le più sottili architetture compositive. Osando sfidare l'abisso, fra generosità espressiva e qualche titanica (o teutonica) ridondanza, ci si chiede come sarebbe cambiata l'esperienza d'ascolto, con un più deciso lavoro di lima sulla durata complessiva del disco; in ogni modo, già solo con i tre brani qui esaminati è il caso di dirlo: scire nefas.
Cederemo alla fascinazione, al mistero del labirinto che sovverte il tempo; e non potremo disertare, con gli Ultha, il tempio dell'ascolto.

 





01.The Night Took Her Right Before My Eyes
02.Mirrors In A Black Room
03.Athame - Bane Emanations
04.You Will Learn About Loss
05.Fear Lights The Path (Close To Our Hearts)

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