Ci sono generi e atmosfere la cui dimensione più congeniale, forse, è proprio quella dell'EP: non sono poi così rari i casi in cui sonorità stupefacenti sul breve termine finiscono per annacquarsi quando il minutaggio sfora i quaranta o più minuti, portando interi album a ingobbirsi sotto il peso di un'eccessiva staticità e pesantezza, a non avere più cartucce da sparare per sorprendere.

Potrebbe essere questo il caso di Darkher, one-woman band nata per volere della britannica Jayn Hanna Wissenberg -già leader e compositrice dei The Steals- e appena giunta a lasciare la prima traccia non amatoriale della propria musica: il mini-album "The Kingdom Field" è un'operetta costruita su chitarre che si muovono tra i toni bassi dello stoner, le acidule ruvidità del black atmosferico e la delicatezza del delay di un certo dark alternative, mettendo in piedi una fragile, ossessiva, claustrofobica impalcatura per una voce sfuggente, sinuosa, seducente. Oblique evoluzioni accompagnano le liriche della Wissenberg, che vanno facendosi adesso sottili, fredde, taglienti (i lontanissimi echi in coda alla lunga "Foregone"), ora più sciamaniche e sensualmente sospirate (le declamazioni della solenne opener "Ghost Tears"), ora più dolcemente flebili (le morbidezze di "Hung").

Ed è proprio quando l'incantesimo sull'ascoltatore prende ad allentarsi che i titoli di coda cominciano a scorrere, fra le note della strumentale title track: tenui sussurri e lentissimi arpeggi chiudono in bellezza un'esperienza intensissima, un viaggio breve e indubbiamente affascinante nella sua incurabile inquietudine.