Frost*
Day And Age

2021, Inside Out Music
Neoprogressive

Ad un lustro da "Falling Satellites", i Frost* scattano un'istantanea preoccupante dei nostri tempi: l'aspra bellezza di "Day And Age" gratifica e allarma.
Recensione di Giovanni Ausoni - Pubblicata in data: 18/05/21

Ironia, carisma e abilità tecniche fuori dal comune caratterizzano i Frost*, band inglese che lo scorso anno aveva vellicato i palati fini del neoprogressive con l'EP "Others", breve e lussuosa raccolta contenente quei pezzi esclusi dall'edizione definitiva del loro terzo album in studio "Falling Satellites" (2016). L'uscita del nuovo "Day And Age", oltre a mettere la parola fine a un'attesa ormai di un lustro, segna una grosso cambiamento a livello di line-up: fuori il batterista Craig Blundell, dentro tre drummer di comprovata esperienza e del calibro di Kaz Rodriguez, Darby Todd e, soprattutto, Pat Mastellotto. Una formazione, a cui vanno aggiunti Jem Godfrey, John Mitchell e Nathan King, dalla qualità impressionante, in grado di passare dal serio al faceto e viceversa senza cadere nel convenzionale, conservando un senso della musicalità a dir poco prodigiosa. Una leggerezza di spirito dal mood oscuro, unione di contrasti sublimata nell'inarrivabile "Milliontown" (2006), ma che nel presente lavoro sembra trovare un'ulteriore pertugio attraverso cui canalizzare la propria natura ossimorica: raramente sentimenti come disillusione, paranoia, rassegnazione, infatti, sono stati trattati in maniera così seducente e lusingatrice.
 
La voce di una bambina che, con un pizzico di sarcasmo, invita l'ascoltatore a divertirsi - e che torna nel mezzo del brano in tono più sinistro -, dà il via alla title track, vero manifesto del genio compositivo dei britannici: dodici minuti costruiti su un unico riff dalle molteplici variazioni e doppiato dalle tastiere, nel quale si alternano passaggi di potenza sbalorditiva, crescendo inarrestabili, eufonie spoglie e inquietanti, cadenze frenetiche, in uno strano e suggestivo mix tra l'easy listening dei Genesis di Phil Collins e l'eloquenza alternative dei secondi Marillion. Nervosi colpi di prog metal scuotono gli interstizi AOR di "Terrestrial", mentre le ondulazioni del pianoforte che ciondolano minimaliste e invernali sulle curve vagabonde degli archi costituiscono l'ossatura di una "Waiting For The Lie" in altri luoghi generosa di synth esplosivi.
 
La cinematografica "The Boy Who Stood Still", invece, impiega intricati e ipnotici ritmi electro-funk debitori della coppia Brian Eno/David Byrne di "My Life In The Bush Of Ghosts" per raccontare, tramite la voce dell'attore Jason Isaacs, la storia di un ragazzo capace di raggiungere l'invisibilità estraniandosi dal mondo circostante. In "Island Life" e "Skywards" emerge la vena pop al medesimo istante vivace e malinconica di Godfrey, laddove le articolate "Kill The Orchestra" e "Repeat To Fade", quest'ultima percorsa da una spettrale voce operistica in sottofondo, eccellono nello sciorinare angolosi ricami frippiani, campionamenti à la Moby, calde orchestrazioni dal taglio ottantiano, melodie che ricordano il recente "Feelings Are Good" (2020) dei Lonely Robot di Mitchell.
 
Un'istantanea preoccupante dei nostri tempi, cinica e amara, scattata da dei Frost* snelli e coinvolgenti, ancora una volta caleidoscopici menestrelli di un genere umano alla vana ricerca della felicità. L'aspra bellezza di "Day And Age" gratifica e allarma, implacabilmente.




01. Day And Age
02. Terrestrial
03. Waiting For The Lie
04. The Boy Who Stood Still
05. Island Life
06. Skywards
07. Kill The Orchestra
08. Repeat To Fade

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