Destrage
A Means To No End

2016, Metal Blade
Heavy Metal

Recensione di Marta Scamozzi - Pubblicata in data: 31/10/16

Dopo la perfezione sfiorata con “Are You Kidding Me? No.”, album che contiene il mix ottimale di caratteristiche vincenti, i Destrage avrebbero potuto intraprendere due strade diverse: stabilizzarsi sul loro mix di sonorità complesse ma non troppo, oppure oltrepassare la linea e perdersi in un mondo di sperimentazioni ossessive, utilizzando sapientemente una miriade di mezzi senza un fine. Il nome del nuovo album dei Destrage è “A Means To No End”. Data questa premessa, indovinate  quale delle due strade hanno scelto. 
   
L’approccio vocale è dominato da uno scream forsennato che si addice più a un post-punk industriale che ad un album heavy metal. Ogni traccia è caratterizzata da una serie innumerevoli di elementi mescolati in modo originale e poco orecchiabile: in molte delle canzoni si può riscontrare un  piccolo festival dei tempi dispari, dove una batteria assatanata è l’assoluta protagonista,  e un’infinità di linee di chitarra diverse. Niente di nuovo, rispetto a “Are You Kidding Me? No. ” in termini di mezzi. La differenza sta proprio nel fine che, come suggerisce il titolo dell’album, non c’è: tutto è mescolato in maniera complicata ed eterogenea all’interno di ogni singola traccia, relegandola al ruolo di comparsa nell’omogeneità dell’album. Come i Destrage ci hanno rivelato nella recente intervista, l’album è suddiviso in due parti: la prima, più immediata e lineare, è più simile agli ultimi lavori dei Destrage; mentre la seconda è più sperimentale.
L’approccio necessario all’immersione in “A Means To No End” è suggerito tra le terzine della title track in apertura, una delle più comprensibili all’orecchio umano: “What can be damned must be damned”
Si prosegue con l’accattivante “Don’t Stare At The Edge”, dove uno strillante Paolo Colavolpe è accompagnato da un’insistente rullare di pedali e prepotenti linee melodiche. La terza traccia, “Symphony Of The Ego”, è aperta da un divertente riff di una chitarra schizzata che cerca di abbozzare qualcosa di funky, e finisce per girare in tondo, inseguita da un forsennato squadrone di strumenti musicali. Tutto ciò non è altro che un perfetto accompagnamento per  l’amaro sarcasmo del testo. Si tira poi un sospiro di sollievo con “Silent Consent”, che tutto sommato è una delle tracce più immediate dell’album, per poi piombare tra le note di “The Flight” che altera cantati in Growl e pungenti scream a vivaci linee pulite che giocano con un basso massiccio e chitarre piacevolmente ingombranti. Dopo i disordinati ritmi punk di “Dreamer” si passa alla strumentale “Ending To A Means”, canzone che separa a la parte dell’album recensibile da quella assolutamente incomprensibile al genere umano, come suggerisce il titolo della traccia successiva: “Peacfully Lost”. 
   
“A Means To No End” è un album tecnicamente impeccabile ed estremamente particolare: perde quell’immediatezza che i Destrage erano stati tanto bravi a calibrare, ma guadagna parecchio in mindblowingness, che è una delle qualità principali dei grandi album. Un’altra grande prova di una band che ha saputo mischiare la classica energia del metallo puro alla tipica, variopinta creatività italiana intrisa di passione che, magicamente, rende facilmente assimilabile anche i prodotti più complessi. 





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