Articolo a cura di Icilio Bellanima
C'è chi a 21 anni non ha nemmeno concluso la scuola superiore. E chi, in un freddo paesino del Sud-Ovest della Svezia con meno di 10000 anime al suo interno, scrive pagine indimenticabili del metal estremo europeo, se non mondiale. Parliamo di Jon Nödtveidt, parliamo dei Dissection, parliamo di un'anima tormentata che non ha potuto dare tutto quel che aveva dentro di sé, che ha posto fine alla sua stessa vita prima del tempo, corrosa da demoni interiori senza i quali sarebbe stato impossibile partorire stelle danzanti, prendendo in prestito, almeno in parte, un celebre aforisma di un'altra anima in pena. Demoni che però chiedono uno scotto da pagare sempre troppo alto.
Anzi, no, sarebbe ingiusto toccare tasti dolenti e privati. Concentriamoci su ciò che di bello il buon Jon ha lasciato ai posteri, perché "Storm of the Light's Bane", secondo album su tre totali di una delle band svedesi più importanti della storia, è un manifesto. È il culmine di un percorso musicale e concettuale, nonostante la giovane età del suo compositore principale, partito con quel "The Somberlain" che mise subito in chiaro l'estro creativo del combo di Strömstad. Una ricerca continua, figlia discola e furiosa del black metal, il fenomeno musicale e non dell'epoca (il debutto discografico dei Dissection, risalente al 1993, venne dedicato ad Euronymous, scomparso poco prima), ma anche del death metal squisitamente melodico di matrice svedese, del più classico del metal anni '80, degli Iron Maiden, del thrash. Tutti tasselli di un mosaico glaciale, carico di malvagità, giunto all'apice proprio con "Storm of the Light's Bane".
A farla da padrone in questo seminale album è il gusto melodico fuori dal comune di Nödtveidt e soci, messo in risalto da un riffing arzigogolato, complesso, convulso, e da un'ossatura dei pezzi selvaggia. I brani sono lunghi, carichi di atmosfera, ricchi di continui cambi di velocità: i nostri non temono di dosare l'acceleratore, né disdegnano dei momenti puramente acustici, in cui una chitarra tanto soffice quanto sinistra detta le sue regole (come il riff iniziale di "Where Dead Angels Lie") e fa capolino tra una sfuriata e l'altra ("Night's Blood"). Non deve quindi sorprendere che la meno vorticosa del lotto, la solenne "Thorns of Crimson Death", con la sua atipica parte introduttiva, risulti al contempo la più maestosa, la più melodica, la più amata dal vasto seguito della compianta band.
Si tratta però di interventi sporadici: il grosso lo fanno le sparate alla velocità della luce, il blast beat furioso di "Unhallowed" che spalanca le porte di un inferno freddo come le notti invernali scandinave, gli intrecci melodici semplicemente splendidi, ficcanti, mai banali, epici, che caratterizzano e donano personalità ad ogni brano, fino a raggiungere il culmine con "Soulreaper", il cui ritornello incalzante e trascinante riuscirebbe a strappare le parole di bocca anche al più intransigente dei blackster. La gemma in questione lascia sfogare l'ultimo barlume di cattiveria, soffocato dalla malinconia dell'outro "No Dreams Breed in Breathless Sleep".
Con le sue brillanti intuizioni, la sua atmosfera diabolica e glaciale, il suo perfetto incrocio di black metal, death puramente svedese e concezione melodica maideniana/ottantiana, ma anche i poetici testi dello stesso Nödtveidt, "Storm of the Light's Bane" è a tutti gli effetti uno dei classici imprescindibili del metal estremo tutto, una gemma nera che chiunque osi definirsi estimatore del genere deve aver quantomeno consumato nel proprio lettore.
Chissà quali e quante altre stelle danzanti avrebbe potuto partorire il buon Jon. Peccato che il caos dentro di sé fosse impossibile da tenere a bada.