Languidi, slavati tessuti chitarristci, composti d'arpeggi acustici e lenti bending chillout-sounding di elettriche, s'uniscono a dozzinali elettroniche da dream pop, formando un tappeto musicale tremendamente inoffensivo ed omogeneo, spesso eccessivamente sintetico e impalpabile (qualche ripresa, sotto questo punto di vista, s'ha soltanto all'inizio di "It Rings So True" o nella strumentale "Innsbruck"); voci sussurrate e filtrate fino all'inverosimile (appannaggio, dal momento dell'abbandono del vocalist Simon Phipps, del chitarrista-bassista-produttore Mark Peters) lasciano, alla fine dell'opera, con la sensazione d'aver ascoltato per una quarantina di minuti i lamenti d'un androide tabagista.
Sporadici elementi additivi, nessuno dei quali realmente valido, compaiono comunque tra una traccia e l'altra: le sovrapposizioni vocali a opera di Sophie McDonnell, apparentemente impegnata in una gara con Peters per quale riesca ad essere la voce più acromatica, perdendo ai punti ma dando comunque accesa battaglia; l'incedere più movimentato e quasi danzereccio di "Searching For Answers", e le sonorità da videogame arcade di "Smoke And Mirrors"; gli incerti tocchi di piano -che accendono quasi la speranza che un errore tecnico abbia portato a masterizzare una traccia di Antonello Venditti al posto di 5 minuti dell'album- di "Smiling Back" o "Drive Your Car"; elementi che non spostano d'una virgola il giudizio su "Always Returning", album noioso e apparentemente interminabile, perfetto esempio di quanto insopportabilmente vacuo possa farsi lo shoegaze nelle sue peggiori incarnazioni.