Enslaved
E

2017, Nuclear Blast
Progressive Black Metal

Recensione di Giovanni Ausoni - Pubblicata in data: 08/10/17

È sempre buon segno quando un disco si apre con il suono di un corno vichingo, accompagnato da nitriti equini. Il quattordicesimo opus in studio degli Enslaved, con il giovane Håkon Vinje, abile gestore di tastiere e clean vocals in sostituzione di Herbrand Larsen, non delude le aspettative. Il titolo monosillabico, riferimento alla runa nordica Ehwaz dal significato letterale di cavallo e utilizzata per connotare la cooperazione e la simbiosi tra uomo e natura, aggiunge al full-length un coté mistico confermato dalla profondità delle liriche.

 

La musica segue le medesime coordinate di "RIITIIR" (2012) e di "In Times" (2015), sebbene in "E" le composizioni si mostrino maggiormente dilatate e investite di una vena progressive marcata e in grado di contenere l'aggressività caratteristica della band norvegese. L'opener "Storm Son", enorme leviatano di metallo fuso, avanza imponente e contemplativo, con la batteria dell'instancabile Cato Bekkevold ad assurgere a ruolo di mattatrice principale e intelligente ad adattarsi a cambi di tempo in continua rotazione. I segmenti veloci e irruenti presenti non raggiungono la dimensione martellante ed esplosiva delle registrazioni degli anni '90, ma preferiscono incastrarsi con pesantezza ragionata nella melodia portante dell'insieme: un assalto fregiato di filosofiche suggestioni.

 

In "The River's Mouth" risalta la voce morbida di Vinje, che stride cristallina accanto al growl bellicoso di Grutle Kjellson: pista breve rispetto alla media dei pezzi dell'album, sprigiona un certo interesse nell'esplorare diverse dinamiche, con il gruppo che varia senza strappi accelerazioni e rallentamenti: attimi di respiro in un inesauribile serbatoio di intensità spirituale. "Sacred Horse" dal canto suo galoppa tumultuoso e rapido: le otto zampe di Sleipnir trasportano Odino su un manto di keys la cui armonica deflagrazione pare quasi trasmettere l'alito divino di Jon Lord. La lunga coda del brano, caratterizzata dal pulsare tambureggiante della sezione ritmica e da un cantato maestoso, scorta barbuti normanni verso il ritorno nell'avita patria.

 

Se l'interazione fra le chitarre di Ivar Bjørnson (leggi qui la nostra intervista) e Arve Isdal rappresenta il punto culminante di "Axis Of The Worlds", "Feathers Of Eolh" forse appare il momento meno riuscito del platter: eccessive delicatezze in una traccia che avrebbe meritato un'epica cavalcata nel vento artico. "Hiindsiight" invece vede l'ensemble espandere la propria tavolozza sonica con l'aiuto di alcuni ospiti speciali. Dall'iniziale intro post metal si passa a un luminoso inserto shoegaze in virtù di un riffing ipnotico e ronzante capace di emigrare efficientemente in territori guerreschi, prima degli affascinanti solos del sassofonista Kjetil Møster, inframezzati dagli interventi del Johuikko del polistrumentista Einar Kvitrafn Selvik dei Wardruna.

 

Chiudono il lotto due trascurabili bonus tracks: "Djupet" e la bizzarra cover dei Röykosopp "What Else Is There" appesantiscono un lavoro che già a tratti palesa un sovraccarico in termini di minutaggio difficile da digerire con agilità: per il resto si viaggia su buoni livelli di qualità e coinvolgimento, benché sia innegabile a volte una tendenza all'enfasi gratuita.

 

Al di là di tutto risulta impressionante notare quanto i nostri abbiano mutato pelle rispetto ai devastanti esordi, virando con consapevolezza in direzione di un sound manifestamente articolato e multiforme. Gli Enslaved stravolgono la mitologia: i rami di Yggdrasil sorreggeranno più di nove mondi.





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