Tributo, plagio o reboot? Probabilmente nessuno di questi termini ben si adatta al terzo album dei Mork, solo project del norvegese Thomas Eriksen. Con entrambi i piedi piantati saldamente nella tradizione del black metal gelido e senza orpelli memore dei Darkthrone e di Burzum, con un cotè evocativo vicino all'esperienza di Fenriz targata Isengard, il musicista mostra un'attitudine old school a forte pericolo aterosclerosi.
Tuttavia Eriksen (leggi qui la nostra ultima intervista) conosce a menadito la materia da plasmare e da scolaro attento alle spiegazioni concepisce un oscuro copione misantropico indubbiamente seducente per gli estimatori del genere, soprattutto se nostalgici e alla ricerca di brividi iperborei da tempo sopiti.
Basta osservare accuratamente i dettagli dell'artwork e del logo della band per rendersi conto dell'assunto principale a fondamento di "Eremittens Dal": rispolverare la fiamma del trve kult attraverso un'interpretazione, per quanto possibile originale, della pesante eredità lasciata da prodromi piuttosto ingombranti e scolpiti nella leggenda.
Un continuo strumming aperto, un perenne blast beat: niente strutture complesse, nessun inizio né fine, presenza di intervalli dinamici che rallentano un ritmo sì sostenuto, ma giammai troppo veloce. Una sequenza di cavalcate mid-tempo che hanno l'unico obiettivo di accompagnare l'ascoltatore nell'atrofica meta prefissa: giacere nelle gole di una valle senza uscite, stretto tra la solitudine del luogo e l'inevitabile congelamento.
Vocals grattugiate e stridenti, fraseggi zanzarosi, sezione ritmica da miniera in sbriciolamento: un puzzle a suo modo coeso su cui opera da collante una componente atmosferica in grado di percorrere in filigrana gli angusti budelli del cupo eremitaggio artico. I brani procedono insensibili a qualsivoglia break distensivo: fa eccezione la strumentale "Et I Rike Nord", capace di tracciare parabole magiche nei paesaggi notturni dello Jostedalsbreen. I sussurri malvagi di Silenoz, ospite gradito dell'album, scandiscono un pezzo che forse meglio rappresenta quell'unione di nichilismo e fredda malinconia tanto cara alla nera fiamma degli albori.
In un lotto di piste nel quale il minimo comun denominatore è l'inalterabilità del binomio pause/accelerazioni, emerge la coppia formata da "Hedningens Spisse Brodder" e "I Hornenes Bilde" cadenzate e a loro modo malignamente catchy, mentre la partecipazione al basso di Seidemann dei 1349 in "Forateinet I Hat" regala un pizzico di cacofonica precipitazione nell'ordinata e ipnotica tessitura. Il resto dei pezzi segue le medesime coordinate costitutive del platter: riffing circolare poco sofisticato ("I Enden Van Tauet") inesauribili pattern di batteria ("Eremittens Dal"), variazioni armoniche ("Holdere Av Fortet"), in un contesto generale privo di veri highlights e gravido di connessioni a fremiti transilvani.
I Mork centrano dunque l'obiettivo della ricostruzione filologica del passato senza sbavature, con un disco dalla struttura metronomica e rispettoso della lezione dei maestri della tetra intransigenza sonora: nondimeno i continui riferimenti a band arcinote e citate con pedissequa diligenza rischia di esasperare anche il defender più paziente, soddisfatto magari delle fosche vibrazioni, meno della mancanza di soluzioni capaci di smottare l'atavica e melmosa poltiglia.
E benché non si possa negare che Eriksen incarni lo spirito del black metal primigenio privo di concessioni a discutibili mode contemporanee, tuttavia l'appiattimento in formule prevedibili spalancherebbe scenari di oblio di difficile estirpazione: per non cadere nell'Ade e restarne intrappolati sine die.