Discomfort
Fear

2018, Epidemic Records
Hardcore

Recensione di Giovanni Ausoni - Pubblicata in data: 06/07/18

Un animale selvatico intrappolato in una gabbia soffocante che tenta con ogni mezzo di sfuggire alle tenaglie di un destino inevitabile concentrando tutte le sue forze nella battaglia, appare consapevole in anticipo della sconfitta, ma le ferite inferte al nemico e un congruo spargimento di sangue rappresenteranno il giusto compenso della violenta tenzone. Nel nuovo album "Fear", i Discomfort convogliano l'esperienza del dolore e dell'afflizione in una dimensione superiore rispetto alle prove precedenti: dall'impellenza ultravioletta della rabbia al caos delle energie consumate, dall'insofferenza nei confronti dell'ordine stabilito al malessere sociale, il disco scava nell'individuo e nell'ambiente circostante, collocando la paura come motivazione ultima necessaria alla sopravvivenza. 


Se nel sound della band anglo-veneta spetta all'hardcore interpretare la parte del leone, genere atto a manifestare la predilezione per il disordine, stato di cose preferibile all'accettazione supina dell'assenza di rivolta, pullulano tuttavia influenze di varia natura, in grado di incanalare l'aggressività all'interno di una proposta che alterna passaggi melodici a momenti di ragionata cacofonia. LP dunque capace di ammaliare e torcere i timpani, arricchito dalla presenza alla voce di Marco Coslovich dei The Secret e di Patrick Thomas dei False Light e dalle incursioni dello scatenato Issy Varoumas, bassista dei grinder di Charleston, abile nell'insinuarsi nelle fenditure dell'articolato tessuto ordito dai nostri: l'artwork simil-munchiano completa l'imago concettuale di un'opera dagli spuntoni aguzzi e dalle atmosfere cupe.


Alla pari di bocconi prelibati posti in apertura e a conclusione del pasto, una coppia di pezzi interamente strumentale introduce e sigilla il lotto, mostrando l'ampio ventaglio di soluzioni alternative di cui il quartetto dispone, tra l'ardito diluvio post black metal della title track, discordante e vagamente epico, e il sustain prolungato ed estenuante di "Divide". Il corpus centrale del resto conosce ulteriori declinazioni: le chitarre nu metal di "Cold", le vibrazioni acide di "Siege" e il mid-tempo "Trapped", che gode di continue mutazioni armoniche, collidono con il pungente noise di "Bodies" e l'attitudine crust di "Unborn". Mentre una coltre di rumorosi feedback inonda la classica struttura HC di "Faith", sono le digressioni politiritmiche di stampo math della batteria a tracciare le coordinate di "Deprive", laddove la tossica "Logging" calca territori sludge nella propria furia devastatrice. L'equilibrio instabile di urla cartavetrate e growling sulfureo costituisce probabilmente il lato debole del lavoro che avrebbe giovato in tal senso di una scelta più netta a favore di una delle due modalità di cantato: nei brani cadenzati e dall'aura torbida, veri highlights del platter, i latrati a là Jacob Bannon non sempre risultano pertinenti al mood evocato.

 

Quando il respiro diventa affannoso e la tensione cerca ansiosamente una valvola di sfogo, "Fear" si candida quale rimedio uditivo ideale; una scarica di hertz e bpm incessante, opima di distorsioni urticanti e mediata da una drappo funebre di basse frequenze, che lascia atterriti e turbati. Gli oracoli della sventura dimorano nel sistema simpatico collettivo: benvenuti nella Discomfort zone.






01. Fear
02. Cold
03. Siege
04. Trapped
05. Bodies
06. Unborn
07. Faith
08. Deprive
09. Longing
10. Divide

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