Viene dal cuore della Capitale l'ultimo ruggito del prog metal; ma a discapito dell'orgoglio patriottico, i Forgotten Prisoners si attestano come molto più di una realtà provinciale, con un'attitudine e un target decisamente internazionali.
Circadian Descent ricalca approcci di altri tempi suonati con la grinta di chi è nuovo di questo mondo e deve azzannarne ogni brandello, ma con la classe di chi ha perso nottate sui dischi dei Dream Theater, Symphony X e compagnia.
Concept album dalle tracce lunghe e vorticose che catturano l'orecchio del prog fan più cocciuto, il primo lavoro dei Forgotten Prisoners è incentrato su tematiche ontologiche e sull'analisi dell'umana attitudine a cadere sempre negli stessi errori, in un'inevitabile cul de sac.
Progressive studiato inserito in una cornice decisamente heavy/power, Circadian Descent (esiste titolo più prog di questo?) presenta più di un'ora di musica impegnativa ma fresca.
L'opener strumentale The Dusk Of Sorrow introduce la proposta musicale della band che trova compimento nel primo brano cantato Lost In Darkness dove già appaiono chiare alcune caratteristiche peculiari e già sintomo di un'identità forte.
Le ritmiche di chitarra sono rombanti e incessanti, decisamente colonna portante di gran parte del disco; sopravvive d'altra parte la volontà, artificiosa o meno che sia, di dare spazio e ruolo ad ogni strumento, e così -a differenza di progband ben più blasonate- il basso trova inaspettato protagonismo, mentre la tastiera e la batteria (invero suonata magistralmente) completano una cornice che denota un certo caratterino, per essere il primo lavoro di un gruppo emergente.
E così l'ascolto prosegue passando per tutti gli step che la costruzione di un concept prevede: non tarda ad arrivare l'immancabile ballad Same Old Story (S.O.S) dove trovano spazio sonorità di più ampio respiro e un cantato figlio di una composizione esperta ed ispirata; brano che introduce fra l'altro una delle (non numerosissime) tematiche ricorrenti, ben emblematica nel titolo.
In particolare, viene ripresa in un environment completamente differente nel brano Ash In The Dust, con atmosfere sature fra synth e strings, un interessante intermezzo neoclassico -tastiere da encomio- e, grazie al cielo, un uso SAGGIO del tempo disparo, che assolve il ruolo che dovrebbe sempre avere: destabilizzare l'ascoltatore, creare asimmetria pur rimanendo totalmente pertinente e non forzato.
E allora, perdendosi fra i vortici del complesso singolo The Passage ed arrivando alla conclusiva Faith In The Dawn emerge l'ultimo segreto nello scrigno dei Forgotten Prisoners: nonostante i testi descrivano l'ascensione dell'essere umano, le musiche ammiccano ad un inevitabile ritorno nella fossa dei propri errori, riprendendo i temi della traccia iniziale.
Sia ben chiaro, ottanta minuti di musica non sono (quasi) mai scevri da difetti, soprattutto se si parla di un gruppo di giovani alla loro prima fatica in studio.
Ma è anche vero che gli eventuali nei passano decisamente in secondo piano quando appare chiara un'esperienza ed una capacità di essere credibili fuori dal comune; parere personale di chi scrive è che un disco non si giudica solo dalla perizia compositiva, dall'originalità dei contenuti, dalla tenica dei performer.
E dunque, premesso che questi ultimi aspetti vengono tutti ampiamente soddisfatti, non c'è da dimenticare che cinque ragazzi di Roma fino a ieri totalmente sconosciuti NON possono avere sul capo la stessa spada di Damocle dei Pain Of Salvation, ma nemmeno dei nostrani DGM, per dirne un paio.
E' dunque un valore aggiunto non indifferente l'esperienza compositiva, l'uso di determinati espedienti e anche di determinati artifici, e, non ultima, la qualità della registrazione.
Inutile dire che il disco è suonato bene, che la musica è bella, che la storia c'è eccome: lo si può fare con migliaia di album. Ma è utile dire che questo viene da una stirpe nuova di musicisti, e che il prog metal in Italia è vivo.