Sin dai primi approcci, è evidente come "Gates of Flesh" sia un opus diretto e piacevole, maggiormente orecchiabile rispetto agli album legati più da vicino alla musica del destino, spesso di difficile comprensione. La prima traccia, "Birth Of Wine", accoglie l'astante con un motivo in stile stoner/blues accompagnato da una voce distesa e un assolo elegiaco. Andando avanti, la densità dei pezzi aumenta (impossibile non citare "Breaking The Cycle", che sembra ispirarsi alla pesantezza monolitica dello sludge metal, e "A Woman Out Of Snow", una variazione acustica estremamente lugubre), ma nel complesso il disco si distanzia da vibrazioni lente e impegnative e comprende una così nutrita gamma di sezioni melodiche da risultare facilmente assimilabile anche dai meno adusi a tali sonorità.
Inoltre, con i suoi quaranta minuti, il platter è decisamente conciso e forse questo elemento contribuisce a renderlo fresco e agile, allontanandolo dai precedenti lavori di Kärki con il reverendo finlandese. Tuttavia i nostri, sebbene si liberino dal peso dei loro gruppi d'origine, conservano comunque nelle corde tracce del recente passato: alcuni riff appaiono familiari e riportano a "Fear No Pain" (2008), quasi a offrire un prezioso insegnamento, ovvero che tutto ciò che cambia è destinato a tornare alle proprie radici primordiali. Un concetto chiave che informa i testi stessi dell'opera: l'uomo è destinato ad essere oppresso dall'angoscia dell'esistenza, ma può liberarsi se riesce ad interpretarla come sorte universale e a vivere in simbiosi con un mondo costretto a morire.
Sarebbe interessante scoprire in che modo potrebbero espandersi gli orizzonti dei Lord Vicar con qualche sperimentazione ulteriore , ma "Gates of Flesh" ha le potenzialità per diventare un vero classico: ogni ascolto rivela dettagli e segreti che manterranno vivo a lungo l'interesse degli appassionati di doom.