Gazpacho
Fireworker

2020, Kscope
Art Rock

I norvegesi tornano in scena con un concept album altamente introspettivo e fedele in tutto e per tutto al loro ultra-ventennale marchio di fabbrica.
Recensione di Federico Barusolo - Pubblicata in data: 21/09/20

Chiunque segua i Gazpacho da un po' di tempo sa ormai bene che cosa aspettarsi da un loro album. Sa cosa aspettarsi ma, soprattutto, sa ancor meglio cosa non aspettarsi.


Una carriera costruita su di un sound fortemente atmosferico, lento ed evocativo. Un malinconico folk nordico che è sempre stato in grado di farci dolcemente scivolare all'interno di viaggi spirituali intra ed extra-corporei, alla ricerca di un luogo tra sogno e realtà dove meglio capire i nostri segreti più profondi, il significato e il motivo della nostra vita. Caratteristiche queste che in oltre 20 anni di musica della band di Oslo non sono mai realmente cambiate, non hanno mai ceduto il passo a drastiche evoluzioni e cambiamenti di stile, e "Fireworker" ne è l'ennesima dimostrazione.


Dedicato a un parassita, quello che vive non nel nostro corpo ma nel più profondo della nostra anima, che guida le nostre scelte più impulsive e irrazionali, che preserva la nostra natura umana, il disco apre con una lunga composizione dal nome "Space Cowboy". L'ambiziosa opener sfiora i 20 minuti, dimensioni epiche che mancavano dai tempi del capolavoro Night (2007), e ci ricorda subito una delle cose che i Gazpacho sanno fare meglio: disorientare. Lungi dal costruire un tema portante per il brano, le melodie si sviluppano lente ed angoscianti, per variare bruscamente proprio nel momento iniziale del nostro coinvolgimento. Una scelta apparentemente scellerata, che non consente di entrare in immediata sintonia con la musica, che destabilizza e mette a disagio, che chiede attenzione e partecipazione ad un livello maggiore. Non è forse questa una buona definizione per la musica progressiva?


Così, tra le lente e oniriche melodie descritte dal piano e dalla voce di Jan Henrik Ohme, si fanno inizialmente spazio stacchi elettronici, prima di spezzoni coristici che ci riportano un po' alle floydiane memorie di Atom Heart Mother e contribuiscono al crescente sentimento rapsodico di cui è pervaso questo pezzo, prima che violenti e sinistri passaggi di chitarra rompano nuovamente l'atmosfera.

 

"Hourglass" ci suona più prevedibile e meno originale, impreziosita principalmente dalla presenza del violino di Mikael Krømer, dà il via ad un trittico di brani più brevi e diretti, tra i quali la title-track svetta per maggiore positività e appeal immediato, guidati principalmente dall'uptempo della batteria. Al contrario, "Antique" porta con sé un sentimento più oscuro e profondo, in cui stavolta le pelli di Robert R Johansen sembrano provenire da uno spazio remoto e angusto dentro di noi.


La chiusura è affidata a un'altra lunghissima traccia, stavolta più diretta e coinvolgente fin dal primo ascolto, ma che, proprio per questo motivo, è dilatata in maniera probabilmente non necessaria, riuscendo a rendere un po' ostico anche il finale di "Fireworker".

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Insomma, per sentire qualcosa di propriamente diverso nel sound dei Gazpacho è forse ora di arrendersi. Vero è che, in maniera più o meno immediata, ciascun album del sestetto norvegese riesce a esprimere una propria personalità distinta ed emozioni ben definite e "Fireworker" non è da meno, ma è probabile che senza nuovi stimoli e un'aria un po' diversa non sentiremo più dischi del livello di "Night" o "Tick Tock".





01. Space Cowboy
02. Hourglass
03. Fireworker
04. Antique
05. Sapien

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