L’evoluzione è un dogma per chi guarda alla natura in un certo modo.
Non era pensabile altrimenti per una band come i Gojira che di questo ne hanno fatto una vera e propria ossessione usando spesso una simbologia strettamente connessa nei testi e negli artwork.
Quattro anni di attesa dal precedente capitolo in studio hanno di fatto posto le basi per cui questo “Magma” potesse fuoriuscire dalla bocca del vulcano in copertina, portandosi dietro tante sorprese. Con il loro sesto album i transalpini capiscono che, giunti a questo punto della carriera, è il momento di alzare la posta in gioco. Se meriteranno di sedersi o meno tra i grandi, è ancora troppo presto da sapere. Al momento è possibile scrivere, senza il timore di essere smentiti, che ci troviamo di fronte ad una band diversa. Seppur con le dovute proporzioni, “Magma” potrebbe rappresentare per i Gojira quello che il Black album fu per i Metallica: strutture più semplici, minutaggio delle canzoni ridotto e riff che quasi si possono cantare. In tutto ciò aggiungiamo anche una buona dose di clean vocals. “Ok certo va bene la nicchia ma noi vogliamo molto di più” sembrerebbe voglia dire il gruppo di Bayonne che inconsapevolmente o meno ha rimodellato il proprio sound verso qualcosa che punta alle masse.
I singoli già pubblicati (e relativi videoclip) lo avevano ampiamente anticipato spiazzando non poco i fan, specie quelli più intransigenti preoccupati dal cambio di direzione intrapreso. Per forza di cose “Magma” è destinato a dividere i giudizi delle persone, tra chi lo vedrà come l’inizio del declino e chi come l’ennesima prova di grande classe. Perché anche a fare le cose semplici, sempre che questo aggettivo possa essere accostato alla proposta dei Gojira, ce ne vuole tanta. “Stranded”, col suo riffone alla Pantera e le note accattivanti di whammy, conquista già al primo ascolto così come “Silvera”, destinata a diventare un classico live. Dall’apertura epica di “Shooting star” in avanti inizia un percorso affascinante in cui ogni canzone riesce ad emergere offrendo sempre uno spunto interessante, come può esserlo ad esempio la strofa della titletrack (che ricorda un po’ “F*** You” dei Damageplan) o il giro conclusivo della bellissima “Low lands” (per certi versi vicina ai Muse).
La tracklist molto contenuta, vista anche la presenza di “Yellow Stone”, intermezzo che si muove intorno ad un giro di basso, e il mantra conclusivo della strumentale “Liberation”, ne facilita i ripetuti ascolti permettendo appunto di cogliere ogni volta un dettaglio diverso.
Un’ultima nota va spesa sulla produzione curata nelle fasi di registrazione e missaggio da Joe Duplantier nello studio costruito da lui stesso a New York, dove adesso risiede insieme al fratello e batterista Mario. Suoni grandi e potenti come un album del genere richiede, il vulcano è pronto ad esplodere e a far uscire il magma al suo interno.