C'è sempre stato qualcosa di davvero intrigante nel songwriting dei Graveyard, sebbene uno spettro di terribile derivatività affiorasse quasi a ogni traccia di ogni loro disco. Sarà stata quell'attitudine nostalgica quanto scanzonata di goderecci up-tempo come "RSS" o "HisingenBlues", quella tendenza della voce a salir di registro fino a farsi artefice di striduli graffi, o piuttosto l'attitudine bluesy delle chitarre ad avvilupparsi in lunghe sezioni solistiche, non virtuose ma a loro modo godibili e ipnotiche.
Ci piacevano tanto i Graveyard, dicevamo: ci continuavano a piacere anche in quel "Lights Out" che mostrava tuttavia palesi segni di involuzione, e che vedeva i rari colpi di genio assestarsi su una sostanziale parità numerica con i momenti di assoluta piattezza. Purtroppo però al tempo del quarto album in studio il tempo degli alibi è già finito da parecchio tempo, e non può bastare restare fossilizzati nella propria comfortzone di riff settantiani, di abbozzata psichedelia e di sveltissimi brani di 3 minuti con batterie rullanti per essere ancora convincenti e credibili. Perché è ancora questo che sono i Graveyard, e "Innocence & Decadence" lo dimostra eloquentemente: le sonorità degli svedesi -e non la resa complessiva e le atmosfere, ma i singoli riff, i singoli hook, i singoli assoli- sono sostanzialmente le stesse dal disco d'esordio. E peggio ancora, all'album mancano completamente le intuizioni capaci di far soprassedere sulla generale mancanza d'idee: il crooning del main single "The Apple And The Tree", unito a una struttura dei versi un po' cervellotica in quanto a metrica, rende l'ascolto del pezzo davvero arduo; il coro semi-gospel e gli sprazzi Floydiani di "Too Much Is Not Enough" sembrano oggettivamente fuori contesto; il lento "Exit 97" ha un andamento troppo dimesso e molle per lasciare davvero il segno (lontanissima l'intensità di ballate come "No Good Mr. Holden" o "Unconfortably Numb").
A non rendere troppo grave il giudizio sull'album interviene tuttavia una buona chiusura ("Far Too Close" ma soprattutto l'evocativa "Stay For A Song") ma soprattutto un'inattesa chicca: "From A Hole In The Wall", affidata all'asmatica voce del nuovo bassista Truls Morck, si destreggia agilmente su sacrali organi e su un glorioso blast beat (in fondo la band viene da Gothenburg). Sono indizi che la band possiede ancora qualche vera scintilla di creatività, ma -anche e soprattutto- dimostrazioni di come la formula della cavalcata di tre minuti imbottita di overdrive non è l'unica strada percorribile per incidere classic-retro-rock.
E si spera che i Graveyard riescano a capire davvero su quale strada imbarcarsi, perché al quinto studio album si sarà ben fuori dalla fase della propria innocenza, ma si potrà già essere inesorabilmente incamminati verso la decadenza.