Haken
Virus

2020, Inside Out
Prog Metal

La band londinese torna con la naturale continuazione di "Vector", mostrando il rinnovamento dello stile a braccetto con i propri grandi classici.
Recensione di Federico Barusolo - Pubblicata in data: 24/07/20

"Who is the Cockroach King?"


Questa la domanda che dal lontano 2013 tormenta i fan più appassionati degli Haken, band che si è ersa di diritto tra le primissime rappresentati del progressive metal moderno. Una domanda legata a quello che è oramai divenuto un classico della formazione londinese, che risponde appunto a nome di "Cockroach King", uno tra i brani prog più geniali e distinti del decennio appena concluso. Sebbene si tratti di uno dei testi in assoluto più diretti dell'intera discografia degli Haken, l'epicità e la riconoscibilità di un tale capolavoro non hanno potuto far altro che montare la curiosità attorno a una figura politica e sociale così suggestiva. Ecco perché, in questo 2020, la semplice anticipazione lanciata dal batterista Ray Hearne riguardo il poter finalmente svelare l'identità del Re Scarafaggio nel nuovo album "Virus" non è certo caduta nel vuoto, generando attesa e curiosità, poi ulteriormente alimentate dalle ben due posticipazioni di cui la pubblicazione è stata protagonista nel corso dell'estate.


Ma andiamo con ordine. Un'altra fondamentale curiosità è legata al percorso stilistico intrapreso dalla band nel 2018 con "Vector": se già allora abbiamo potuto apprezzare un prodotto di assoluta qualità e svecchiata eleganza, ora dobbiamo tenere in considerazione il fatto di aver ascoltato solo una parte di un disegno più ampio e già del tutto definito ben due anni fa. "Virus" viene, infatti, alla luce come una sorta di complemento del suo predecessore, come una raccolta di brani nati nello stesso periodo e con un titolo che, a detta della band, precede per intenzioni tutti gli avvenimenti che nel corso dei primi mesi del 2020 lo hanno reso così sospettosamente attuale.


Riguardo al sound, ogni dubbio è presto fugato dalla massiccia opener "Prosthetic", una traccia che si pone naturalmente da ponte tra i due dischi sia a livello stilistico che tematico. Oltre a constatare una crescente ricerca della pesantezza delle strutture, sempre incline a ravvivare l'eterno paragone con lo spirito guida Dream Theater, ma anche ad avvicinare gli Haken ad alcune realtà djent quali Periphery e Animals As Leaders tra tutti, il collegamento è anche formato dalle citazioni testuali (da "Nil By Mouth" a "A Cell Divides" o allo stesso test di Rorschach presente sulla copertina di "Vector"). I quasi sei minuti di questo brano cuciono la ruvida e tecnicissima interpretazione chitarristica di Richard Henshall e Charles Griffiths alla martellante struttura ritmica, a evidenziare l'estremizzazione di una tendenza che punta tutto sullo spessore e la ruvidità, andando però forse ad appiattire quelli che sono da sempre i tratti storici della band, in questo frangente relegati alle sole tastiere curate da Diego Tejeida. Persino il ritornello sembra mancare di originalità e brillantezza rispetto a quanto sentito in "Vector", risultando uno dei meno riusciti dell'album.


Le tracce direttamente successive si prendono un po' in carico l'onere di ridare varietà e profondità al sound, costituendo una serie di pezzi eterogenei che alternano momenti di assoluto coinvolgimento in pieno stile Haken, come "Invasion", che riporta le tastiere al sapore vintage di "Affinity", o "The Strain", ad altri di maggiore stagnazione, come nel caso di "Carousel", che richiedono probabilmente tempo di ascolto maggiore per essere assorbiti totalmente. Una menzione particolare va di diritto a "Canary Yellow", secondo singolo e probabilmente il pezzo più diretto ed emotivamente travolgente del disco.


La seconda parte di "Virus" è quasi interamente dedicata ad una lunga suite dal titolo "Messiah Complex", un ambizioso lavoro di assortimento tra idee nuove e vecchie conoscenze, tra le quali le più dirette riguardano "Puzzle Box", secondo brano di "Vector", e "Falling Back To Earth", altro pezzo storico del gruppo. Il risultato è un sali-scendi di riff e ritmiche in continua evoluzione nel quale ciascun membro della band è equamente protagonista e dentro cui si innestano i ritornelli impreziositi dalla solita impeccabile interpretazione di Ross Jennings. I cinque movimenti all'interno di questo brano lungo e complesso conducono dritti al punto posto in apertura di questo articolo, una riesumazione "svecchiata" di "Coachroach King", i cui versi vengono prima tessuti attorno a quelli di "Messiah Complex IV: The Sect", poi resi protagonisti della chiusura di "Ectobius Rex", verso cui è direzionato il climax di tutta la seconda parte della release. "Messiah Complex" è sicuramente un esempio di ottimo songwriting, che si serve di melodie ricorrenti, che vengono snaturate, distorte e riproposte in chiavi diverse, rendendo più compatto l'ascolto di un componimento in continua metamorfosi.


Nonostante siano innegabili l'efficacia e la qualità di questo lungo viaggio tra rievocazioni e bizzarre texture tipiche del sestetto britannico ed il coinvolgimento sia come sempre assicurato, sorgono dei dubbi sulla natura di questo dalbum. Difficile in primis non considerarlo una release satellite di "Vector", anche se una buona parte del materiale si scopre non essere certo da meno per qualità di scrittura e godibilità. La scelta di dedicare una buona parte del disco ad una parziale rievocazione, per quanto riuscita, lascia un pochino di curiosità riguardo la sfumata possibilità di sviluppare il fiume di idee presentato diversamente in "Messiah Complex", in una traiettoria non per forza incidente con quella di grandi capolavori del passato, che rimarranno tali per sempre, senza avvertire il bisogno di ulteriori sviluppi.





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