Halestorm
Into The Wild Life

2015, Atlantic Records
Hard Rock

Un "vaffanculo" non è mai stato così rock.
Recensione di Eleonora Muzzi - Pubblicata in data: 10/04/15

L'ho detto più e più volte e non sono qui per smentirmi: a volte sedersi davanti ad un computer e cercare di descrivere un album è estremamente difficile. Trovare le parole diventa improvvisamente un arduo compito, ci si dimentica aggettivi e sostantivi, insomma, ci si ritrova senza sapere che cosa dire. E non succede mai con i dischi che non ci piacciono, ma proprio con quelli che, indipendentemente dal fatto che uno sia un recensore o un banale ascoltatore che vuole dire agli amici su Facebook di ascoltare il tal disco, ci sono piaciuti. E più ci piace un album, o un DVD o un concerto, la difficoltà aumenta a livello esponenziale.


"Into The Wild Life" è la conferma che gli Halestorm sono un baluardo dell'hard rock che non ha per niente voglia di cedere. Ormai sono in giro da una vita e mezzo, la band è nata quando l'energica e a dir poco avvenente frontwoman aveva solo 13 anni e il fratellino batterista era ancora più piccolo, hanno fatto anni e anni di gavetta e il primo album effettivo, se escludiamo "Don't Mess With The Time Man" esce solo nel 2010. Dico "solo nel 2010" perchè nel frattempo gli Halestorm hanno già iniziato ad andare in tour più o meno lunghi o importanti, a fare da supporto a band anche di grandi calibri e a farsi conoscere e a guadagnare una fanbase abbastanza ampia. Una gavetta lunghissima che però ha portato ad un esordio spumeggiante, l'omonimo "Halestorm" del 2010, e ad un seguito di pari caratura con "The Strange Case Of..." due anni dopo, album che ha consacrato il quartetto di Philadelphia alla fama internazione, facendo loro guadagnare non solo un pubblico molto ampio ma anche il riconoscimento della critica ai Grammy Awards del 2013. Tutto questo, va fatto notare, passando praticamente due terzi dell'anno in tour. E non abbiamo parlato degli EP di cover! Definirli instancabili è poco.
Ed eccoci a tre anni di distanza con il terzo LP. Annunciato a Gennaio con una campagna lanciata sui social media a dir poco geniale, "Into The Wild Life" si propone non come un semplice seguito del percorso intrapreso con l'album precedente, ma un netto balzo in avanti. La strada è quella, ma qui si sono bruciate le tappe. E non è stato un salto negativo.

 

In parole povere, "Into The Wild Life" è un disco che grida "vaffanculo" alla società ("Amen" ne è un esempio abbastanza palese) e al business (vedi "Sick Individual", in cui questo concetto è espresso più che esplicitamente) in generale e la sua pessima abitudine, promossa dai piani alti delle major, a costringere le band a mantenere più o meno la propria proposta incastrata in quello che li ha portati al successo.

 

Lzzy Hale e compagni non ci stanno però, e invece che un seguito diretto, o peggio, un clone, di "A Strange Case Of...", rilasciano un album che è sia un passo avanti che un passo indietro.
Un passo avanti perchè è indubbiamente il disco migliore che per ora la band abbia rilasciato. Maturo, diretto, energico... ha ancora i suoi momenti che gli anglofoni chiamano "tongue-in-cheek", ovvero momenti pieni di doppi sensi o più semplicemente molto, molto espliciti come il primo singolo "Apocalyptic", ormai un inno durante i concerti, ma si è anche passati oltre. Un esempio è "Dear Daughter", ballad voce e piano all'inizio e poi chitarra blues sul finale, che pur raccogliendo l'eredità di "Break In" la supera e crea un ulteriore archetipo nella discografia degli Halestorm, che potranno riprendere in futuro.

 

C'è da notare anche come tutte le canzoni siano concatenate, per cui si ha a che fare con un ascolto senza soluzione di continuità. Il risultato è un ascolto più armonico, senza quei due secondi di pausa tra un brano e l'altro tipico dei CD, ma di fatto pare quasi di ascoltare un vinile, magari uno di quelli che tra una canzone e l'altra avevano un solco molto piccolo, per cui lo stacco era minimo. Un'operazione rischiosa ma ben riuscita, perchè ha portato ad una accurata programmazione della tracklist. Senza tempi morti, hanno costruito l'album in modo che scorresse il più liscio possibile, i brani sono ben mescolati ed organici uno con l'altro, senza cali improvvisi di qualità (di fatto il brano più "debole", se così lo si può chiamare, "Sick Individual" è comunque una bella sberla in faccia, energica e potente, ed è in cima al disco) come a volte capita raggiunti magari la metà o tre quarti di un disco.

 

Band in evoluzione continua, non si sono fermati e seduti sugli allori, il sound si è evoluto al punto che ora è difficile distinguere gli Halestorm da disco da quelli live. Non ci sono momenti "esagerati", difficili poi da replicare dal vivo senza l'uso di autotuning (non presente in nessuna forma su questo album, quello che sentite è tutta Lzzy), o di basi preregistrate. Tutto genuino.
Ma se sono stati fatti dei passi avanti, paradossalmente se ne sono fatti anche indietro. Il suono si è "ingrezzito", se mi passate il termine non presente nel vocabolario italiano. Si è tornati ad un hard rock duro e puro, spoglio degli arzigogoli e dei sofismi moderni. Via gli abbellimenti, via gli orpelli, i frizzi e lazzi e spazio a ritorni alle origini, al blues di "New Modern Love" e la splendida "Bad Girls World", altra ballad in cui il blues old school, dritto dagli anni '60, la fa da padrone. "Apocalyptic" ne è il biglietto da visita: il primo singolo estratto è un esempio perfetto di come gli Halestorm guardino avanti ma abbiano radici ben piantate nei classici. Il riff iniziale è, per citare gli Accept, decisamente sick, dirty and mean, come si faceva una volta. E il testo lo segue a ruota, soprattutto per quanto riguarda il dirty. Stessa cosa va detta per la chiusura "I Like It Heavy", perfetta per un album così. Se l'opener "Scream" è moderna, specchio del passo avanti fatto dalla band, "I Like It Heavy" pare uscita dagli albori dell'hard rock, negli anni '70, simbolo dell'operazione stile "time machine" che questo album personifica. E la chiusura è una sorpresa unica e assolutamente da non perdere.


E a proposito di testi, menzione d'onore va fatta proprio al songwriting. A livello musicale siamo a livelli molto, molto alti per la media odierna, ma sui testi gli Halestorm vincono a man bassa. Neanche trentenni, c'è una maturità incredibile in quello che buttano nelle proprie liriche che trascende età, epoca, situazione sociale... tutto. Le esperienze con i fan, la propria vita, la famiglia, la vita perennemente on the road, le difficoltà di un mondo che va troppo veloce e da cui, purtroppo non ci si può prendere una pausa, sono tutti temi toccati più o meno in tutto il corso dell'album. Se "Scream" è un grido d'aiuto per coloro che a volte non ce la fanno e vedono il burnout come unica soluzione, purtroppo non socialmente accettata, e la potentissima e sublime "I Am The Fire" è un inno all'essere sé stessi e un calcio nel sedere (per non essere volgari) a chi cerca di cambiarti o ti tarpa le ali (abbastanza esemplificativo il verso I Am The One I've Been Waiting For), "Amen" è un dito medio alzato (ma anche due) bello alto verso coloro che ancora vedono coloro non si sono uniformati alla società e ai valori e alla morale vigente come dei falliti buoni a nulla. E l'utilizzo di una terminologia e simbologia cristiana funziona perfettamente.


Ancora lontano dal potersi definire un album blast from the past, "Into The Wild Life" è comunque un disco ricchissimo di sfaccettature che traccia il solco per un futuro radioso di una band che ha detto tanto e ancora ha da dire. Con l'attitudine del "facciamo quel diamone che ci pare e lo facciamo dannatamente bene" si sfondano porte e portoni, e "Into The Wild Life" è un ariete coi controfiocchi, è un falò ben alimentato che brucia alto e minaccia di diventare ben di più. Ormai gli Halestorm sono un fuoco inarrestabile su cui viene costantemente versata benzina, e dalla Pennsylvania si preparano a dare alle fiamme un genere che ha bisogno di rinnovarsi il più possibile se non vuole morire o cadere nel dimenticatoio. E se per questo devono mandare a quel paese qualcuno, continuare a cantare di sesso o pescare sempre di più dal blues, non ce ne staremo qui a lamentarci.





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