Holy Shire
The Legendary Shepherds Of The Forest

2018, Heavy Metal Records
Symphonic Metal

Recensione di Stefano Torretta - Pubblicata in data: 26/10/18

A quattro anni di distanza dal loro album d’esordio, “Midgard”, tornano i milanesi Holy Shire e lo fanno con questo “The Legendary Shepherds Of The Forest”. Dieci canzoni – più una intro, che non si discosta affatto dal classico brano d’aperura che possiamo trovare in un qualunque album di metal sinfonico – che giocano sulla unicità, sul non volere rimanere incastrati nelle maglie del singolo genere musicale. Arma decisamente a doppio taglio che necessita di molta bravura per non ritrovarsi di fronte ad un calderone dove sonorità ed influenze vengono buttate alla rinfusa, ottenendo così un effetto di disunità. In questo caso specifico il sound della band non viene snaturato nonostante le varie declinazioni sonore. La bravura dei singoli musicisti non viene mai messa in discussione e i nuovi innesti - Chiara Brusa al flauto e Frank Campese alla chitarra - si integrano perfettamente nella formazione. Se fino ad ora si sono spese parole di elogio per combo ed album, il discorso cambia quando si va ad analizzare più approfonditamente la materia musicale.

Come già accennato, “The Legendary Shepherds Of The Forest” è un album difficilmente classificabile. Ha elementi symphonic, altri più gothic, altri ancora folk, ma non si focalizza mai in una direzione ben precisa. Nulla di male, visto che ogni brano ha una sua personalità ben definita che gli permette di vivere anche in totale autonomia. Il problema vero nasce quando si inizia a metterne in dubbio perfino l’appartenenza alla omnicomprensiva categoria del metal. Se le sonorità pesanti sono ampiamente presenti in sede live, su disco questo aspetto viene spessissimo ridimensionato, se non del tutto accantonato. Molti brani risultano leggeri, e spesso ci si domanda se una maggior pesantezza non avrebbe donato più spessore alla singola traccia. L’aspetto bombastico proprio del metal sinfonico non appare mai, si preferisce dare più risalto alle atmosfere – e spesso questa visione funziona appieno, come nel caso della title-track – ma così facendo nella maggior parte dei casi manca quell’energia capace di trascinare l’ascoltatore. Rimanendo sempre nell’ambito di quanto andrebbe rivisto, anche l’uso di due voci non sempre ripaga la fatica creativa profusa: quando vengono sfruttate in contemporanea, seppur divise ognuna sul canale destro o quello sinistro, spesso risultano solamente distraenti, facendo perdere la visione generale del brano nel tentativo di focalizzarsi su quanto sta succedendo a livello vocale. Pensata molto originale ma che andrebbe un attimo rivista. Per quanto concerne il cantato, va segnalata anche una fastidiosa attitudine teatrale che stona decisamente con la materia musicale.

Dopo un preambolo così fosco è bene dare un tocco di positività segnalando subito che l’album non è affatto un pessimo lavoro. La musica degli Holy Shire ha bisogno ancora di essere migliorata, di crescere, ma ci sono tutti i segni che non troppo in là nella carriera della band meneghina si potranno gustare album di grande impatto. Manteniamoci però nel presente e analizziamo quanto abbiamo attualmente in mano. “Tarots” e “Danse Macabre” aprono egregiamente il lotto. La prima è energica, con un lavoro della sezione ritmica a dir poco magistrale, varia nella struttura e con l’inserimento di strumenti folk nel momento giusto. Le due voci femminili si alternano perfettamente, donando varietà senza stravolgere l’andamento del brano. La seconda traccia gioca ottimamente con l’aspetto folk: l’uso del flauto ad introdurre il brano setta immediatamente l’atmosfera che si svilupperà nei successivi minuti. Le voci anche qui regalano ottimi intrecci, segno che il fastidioso effetto di sovrapposizione segnalato alcune righe fa non è necessario ai fini di ottenere un brano vincente. La title-track è il miglior esempio di quanto la band possa realizzare in fatto di atmosfera e orchestrazione, con una voce favolosamente ipnotica e linee strumentali soffuse.

 

Con “Princess Aries” il livello qualitativo e l’ispirazione decrescono, così come la pesantezza. “At The Mountain Of Madness” si segnala come pezzo potenzialmente intrigante ma la pessima gestione delle due voci rovina completamente l’atmosfera. “Ludwig” e “The Gathering” mostrano ben poca incisività, e non osano troppo in quanto ad aggressività. Molti rimpianti per quello che si sarebbe potuto sentire. “Inferno” e “Ophelia” innalzano un po’ il livello visto negli ultimi brani, con molta più energia e con arrangiamenti più scarni. Sulla seconda canzone è degno di nota il lavoro delle due cantanti. Anche la chiusura, lasciata a “The Lake”, merita grazie alla mancanza di tutti quegli orpelli aggiuntivi che quasi sempre arricchiscono il suono ma fanno perdere in immediatezza e potenza.


Gli Holy Shire hanno tantissime idee in testa ma spesso, una volta tradotte in musica, non si trasformano nel migliore risultato possibile. Va comunque lodata la voglia di provare e di spaziare. Quando fanno opera di eliminazione, mantenendo gli elementi presenti in una canzone al minimo, sono capaci di costruire composizioni trascinanti ed ottimamente riuscite. “The Legendary Shepherds Of The Forest” non è un disco brutto, solo imperfetto.





01. The Source
02. Tarots
03. Danse Macabre
04. The Legendary Sheperd Of The Forest
05. Princess Aries
06. Ludwig
07. At The Mountain Of Madness
08. The Gathering
09. Inferno
10. Ophelia
11. The Lake

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