Iced Earth
Plagues Of Babylon

2014, Century Media
Power Metal

Recensione di Marco Somma - Pubblicata in data: 07/01/14

Sono passati tre anni dall’uscita di uno dei dischi più “difficili” proposti dal combo di Tampa. “Dystopia” doveva fare i conti con l’ennesimo abbandono del tanto idolatrato, ma ormai spompo, Barlow in favore del giovane e ben poco conosciuto Stu Block. Chiedere ai propri fan di accettare un importante cambiamento come la voce e il volto di una band è già difficile una volta, figuriamoci due. Block si è cosi ritrovato a doversi caricare sulle spalle il peso di un seguito già provato, spazientito e ormai un po’ disilluso. A tre anni di distanza da tanta fatica, possiamo però affermare senza timore di smentita che il giovane Stu ha avuto la meglio sulla tempesta di perplessità incontrata sulla propria rotta ed è riuscito a riportare gli Iced Earth in quella nicchia di gloria che meritano.

Fatto il riassunto delle puntate precedenti torniamo ai giorni nostri e al nuovo scintillante “Plagues of Babylon”. La critica di mezzo mondo sembra pronta ad accogliere questa uscita come un ritorno all’ispirazione che fu, celebrando la rinascita del piccolo ma granitico mito. Per farla breve sembra proprio che questa volta sia tutto vero. Se “Dystopia” mostrava già una certa vena creativa ritrovata ma spiccava essenzialmente per un’intensità del tutto assente in “The Crucible Of Man”, ultimo lavoro con Barlow, “Plague of Babylon” risulta fin dal primo ascolto ancora più intenso. Sia chiaro che non stiamo urlando al capolavoro. Potrebbe anche esserlo ma il disco richiede senza ombra di dubbio un buon numero di ascolti per essere apprezzato fino in fondo. In “Plagues of Babylon” c’è tanta di quella carne al fuoco che per essere metabolizzato a dovere è necessario concedergli tempo, o si rischia l’indigestione. Per mettere i puntini sulle i bisogna chiarire infatti che non si tratta affatto di un singolo disco ma di almeno due “mini” racchiusi in un unico contenitore. Un po’ come fu per quel “Triumph of Steel” che forse è ancora oggi da considerarsi il vero capolavoro dei “re del metallo”, l’ultimo lavoro degli Iced Earth si compone di un concept (dedicato alla saga di “Something wicked”), e una seconda parte che raccoglie una manciata di tipici prodotti di casa Schaffer con il non trascurabile apporto della eccellente performance di Block. Il prodotto finale non ha né la durata né l’immediato fascino del disco dei Manowar, ma alla lunga potrebbe rivelarsi per i fan altrettanto memorabile.

I primi sei pezzi che tornano a narrare le vicende del “Set Abominae” fanno corpo a sé non solo per tema ma anche per sonorità. Le tracce sono tutte serrate, dure e pervase da un gusto power made in U.S.A. di vecchia scuola, al punto di ricordare quel “Night of the Stormrider” di tanti anni or sono. Con “If I Could See You”, chiuso (?) il capitolo del mito di Set, ritroviamo invece la vena più heavy della band. Tra ballad strappalacrime, brani come “Spirit of the Times” - già pubblicati in precedenza con il side-project Sons of liberty ma resi tutti nuovi dalla voce di Block - e tributi a big band come “Highwayman”, nel disco non rimane un attimo per prendere fiato. Da segnalare la partecipazione di Michael Poulsen (Volbeat) e Russel Allen (Symphony X) come ospiti speciali per la cover che fu dei mitici Willie Nelson, Johnny Cash, Waylon Jennings e Kris Kristoffersson.

Per ulteriori dettagli sul disco e il tour di supporto vi rimandiamo all’intervista appena rilasciata dall’inossidabile Schaffer ai nostri microfoni e vi lasciamo con un quesito. C’è ancora spazio per un capolavoro nella storia della band? Forse sì forse no, ai fan l’ardua sentenza. Noi intanto alziamo un pollice ben in alto per il ritorno di una band che fortunatamente sa ancora sorprendere e galvanizzare. Peccato solo per la copertina, ma visto l’ingannevole fascino dell’artwork di “Something Wicked Pt. II”, forse è meglio cosi…



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