Parafrasando Chesterton, il principio della routine moderna è quello di fare cose utili come se non significassero nulla; il principio dei rituali antichi è quello di compiere gesti inutili ma che significhino tutto. Quello che i Lucid Planet allestiscono con il loro secondo lavoro è un rituale. Un rituale sonoro, ovviamente, sciamanico e psichedelico, per la precisione e quindi teso a stabilire rapporti di comunicazione con altri stati di esistenza o di coscienza, i morti e le divinità. Un itinerario ipnagogico che si snoda attraverso un'ordinata teoria di stazioni: primo passo è "Anamnesis" che trasporta subito in un laboratorio alchimistico. In Platone, è il processo stesso della conoscenza, che è ricordo del mondo incorruttibile ed eterno delle Idee: "Now perceptions change, unveiling all untruth/ Distance between so far, uncertainty so strong/ To say that's the way it is, this is what we've got/Is just not enough". Gli officianti sono introdotti al tempio, il rito ha inizio. Colpisce, sin dalla prima traccia, la capacità di dare vita, partendo da un amalgama di suggestioni, a uno stile definito e personale, che colloca i Lucid Planet in un feudo proprio, territorio di confine tra prog, djent, psichedelia, stoner e world music. Quasi senza rendercene conto, sul filo di un esile flauto e di una linea di tabla, compiamo il secondo passo del rituale, "Entrancement"; la fase cioè in cui avviene la perdita di coscienza e si sprofonda nel trance meditativo. Apriamo gli occhi e ci troviamo nel continente indiano, in un tempio di Shiva al cospetto del dio, in piena Kali Yuga.
Dallo psychedelic bass i Lucid Planet traggono l'andamento, l'atmosfera generale; dal prog l'ardire del concept e delle strutture labirintiche; dal djent la ritmica delle chitarre, dove si fanno più distorte; dalla world music il tessuto ritmico percussivo, senza disdegnare l'elettronica. Sorveglia e amalgama il tutto il gusto dell'arrangiamento, la forza del songwriting e stupisce l'equilibrio che su materiale tanto eterogeneo la band riesce a mantenere. I passaggi, i cambi di ritmo ed atmosfera sono graduali e tendono a mimetizzarsi nell'insieme con una fluidità che ha del miracoloso. Originale e complessa la partitura vocale: impossibile non rimanerne ammaliati. "Organic Hard Drive" è il famoso pezzo di cui si parlava sopra, quello da maneggiare con cautela, al cui primo ascolto si rischia di sbandare fuori strada e si potrebbe scomodare tutta la letteratura sulla trance sciamanica da Eliade in giù per parlarne. Qui il rituale si incendia in possessione demoniaca, i didjeridoos preparano solo il terreno all'assalto dispari dei riff di chitarra: un "wall of sound" decisamente stoner/djent, saremmo tentati di dire, se da lì a breve la psichedelia non ci portasse via. Siamo a metà brano e, insomma, pensiamo di averlo ormai capito... ci sbagliamo: la psichedelia si squaderna in un ampio lancio tribal/industrial che ci trasporta sottocassa a un rave techno trance. Siamo circa a metà del brano e non osiamo fare più previsioni, tanto ormai abbiamo sbandato, sfondato il guardrail, l'auto è accartocciata sul carro attrezzi; la trance vira in minimal, poi questa nuovamente in un lungo pad di tastiera sognante e patapaf: siamo di nuovo nello psych/stoner. E la cosa più stupefacente è che l'insieme stia insieme!
Superato lo choc, siamo arrivati ad un passo dall'altare; la ballad lunare di "Offer" è l'offerta votiva al cuore del rito, anche quando non disdegna piccole fughe reggae e voli di tastiere degni del miglior prog. "On The Way" è un pezzo ponte in cui le chitarre introducono la seconda parte del lavoro, più meditativa e meno d'impatto, anche se il fraseggio pseudo scottish stile cornamusa a che lancia il riff successivo non lascia come trova; gli assoli - sempre in questo album misurati, di gusto, collocati in modo originale e mai riempitivi - ne costituiscono la sostanza e danno adito a frequenti fughe. Sublime l'ingresso delle voci a fine brano, che sfuma nell'indistinto: "Sold to me the mountains, the sea/ And the morning sun/ All between the lines that will read/ Of a tale uninspired/ Cold machine/ Life unseen/ It's a long way home". "Digital Ritual" immerge in una coltre elettronica sospesa tra trip hop e IDM ("Enticed by design/ A world behind your eyes/ So sink right in/ Traversing time with/ Nothing but your mind"), dietro le cui nebbie traspare lo scheletro di una lullaby malinconica, coltre che prolunga nel suadente e graffiante arabesco di "Face The Sun": "Come on now, you're ready/ Forward escape/ Farewell/ Go light the way/ Or stay here/ Further/ Higher/ Lighter/ Face the sun". Il rituale culmina nella struggente, emozionante "Zenith": un ultimo assaggio di tutto ciò che di meglio la band può offrirci: "Alone, severing a tie/ Self-interest at the zenith/ Atone with a life's word/ A beacon to shine a light on/ What we're capable of".
Raramente tanto gusto e perizia sono al servizio di un'approccio così intrigante ed originale e raramente una band ha saputo volgere al proprio volere i generi più diversi senza rimanerne ingabbiata. L'unica cosa che ci sentiamo di aggiungere è che ne consigliamo il primo ascolto rigorosamente in cuffia e direttamente sul loro sito, godendosi però anche le animazioni prodotte da Mr. Crystalface, visual artist australiano responsabile dell'artwork della band. Un'ultima raccomandazione: procuratevi adeguate cinture di sicurezza, perché qui non si corre. Si prende il volo.