Lucid Planet
II

2020, Produzione indipendente
Experimental/Post Metal

L'immersione in un rito sciamanico sospeso tra djent, psichedelia, stoner, trance, tribal. Un'esperienza sonora imperdibile: tra le vere sorprese di questo interlocutorio 2020.
Recensione di Matteo Poli - Pubblicata in data: 29/12/20

Ogni tanto, raramente, capita tra le orecchie l'album, la band, il pezzo che fa trasalire e saltar su dalla sedia, o scartare con lo sterzo mentre si guida, o spalancare gli occhi nel buio di una stanza romita. Ogni tanto, capitano album prodigiosi come "II" dei Lucid Planet. Originariamente un trio progressive metal, passato poi al djent, quintetto nell'attuale formazione, la band di stanza a Melbourne, Australia, fa parlare di sé dall'esordio autoprodotto del 2015, "I", nel quale mette a punto per la prima volta l'originale commistione di stili e influenze al paragone del quale si sono scomodati niente meno che i Tool. Da cinque anni i remoti scopritori di questo gioiello ne attendono un degno seguito, anni in cui lo psychedelic rock - complice una concomitante riscoperta in chiave "positiva" (terapeutica e sciamanica, quando non apertamente scientifica) delle sostanze allucinogene - ha regalato ai suoi devoti un vero e proprio rinascimento. Così, ad un terzo di lustro di distanza, ritroviamo i Lucid Planet definitivamente sbocciati in un act dalla proposta matura, personale e a tratti decisamente clamorosa, provvisti di un sound solido e originale, totalmente merito del loro lavoro di autoproduzione.


Parafrasando Chesterton, il principio della routine moderna è quello di fare cose utili come se non significassero nulla; il principio dei rituali antichi è quello di compiere gesti inutili ma che significhino tutto. Quello che i Lucid Planet allestiscono con il loro secondo lavoro è un rituale. Un rituale sonoro, ovviamente, sciamanico e psichedelico, per la precisione e quindi teso a stabilire rapporti di comunicazione con altri stati di esistenza o di coscienza, i morti e le divinità. Un itinerario ipnagogico che si snoda attraverso un'ordinata teoria di stazioni: primo passo è "Anamnesis" che trasporta subito in un laboratorio alchimistico. In Platone, è il processo stesso della conoscenza, che è ricordo del mondo incorruttibile ed eterno delle Idee: "Now perceptions change, unveiling all untruth/ Distance between so far, uncertainty so strong/ To say that's the way it is, this is what we've got/Is just not enough". Gli officianti sono introdotti al tempio, il rito ha inizio. Colpisce, sin dalla prima traccia, la capacità di dare vita, partendo da un amalgama di suggestioni, a uno stile definito e personale, che colloca i Lucid Planet in un feudo proprio, territorio di confine tra prog, djent, psichedelia, stoner e world music. Quasi senza rendercene conto, sul filo di un esile flauto e di una linea di tabla, compiamo il secondo passo del rituale, "Entrancement"; la fase cioè in cui avviene la perdita di coscienza e si sprofonda nel trance meditativo. Apriamo gli occhi e ci troviamo nel continente indiano, in un tempio di Shiva al cospetto del dio, in piena Kali Yuga.


Dallo psychedelic bass i Lucid Planet traggono l'andamento, l'atmosfera generale; dal prog l'ardire del concept e delle strutture labirintiche; dal djent la ritmica delle chitarre, dove si fanno più distorte; dalla world music il tessuto ritmico percussivo, senza disdegnare l'elettronica. Sorveglia e amalgama il tutto il gusto dell'arrangiamento, la forza del songwriting e stupisce l'equilibrio che su materiale tanto eterogeneo la band riesce a mantenere. I passaggi, i cambi di ritmo ed atmosfera sono graduali e tendono a mimetizzarsi nell'insieme con una fluidità che ha del miracoloso. Originale e complessa la partitura vocale: impossibile non rimanerne ammaliati. "Organic Hard Drive" è il famoso pezzo di cui si parlava sopra, quello da maneggiare con cautela, al cui primo ascolto si rischia di sbandare fuori strada e si potrebbe scomodare tutta la letteratura sulla trance sciamanica da Eliade in giù per parlarne. Qui il rituale si incendia in possessione demoniaca, i didjeridoos preparano solo il terreno all'assalto dispari dei riff di chitarra: un "wall of sound" decisamente stoner/djent, saremmo tentati di dire, se da lì a breve la psichedelia non ci portasse via. Siamo a metà brano e, insomma, pensiamo di averlo ormai capito... ci sbagliamo: la psichedelia si squaderna in un ampio lancio tribal/industrial che ci trasporta sottocassa a un rave techno trance. Siamo circa a metà del brano e non osiamo fare più previsioni, tanto ormai abbiamo sbandato, sfondato il guardrail, l'auto è accartocciata sul carro attrezzi; la trance vira in minimal, poi questa nuovamente in un lungo pad di tastiera sognante e patapaf: siamo di nuovo nello psych/stoner. E la cosa più stupefacente è che l'insieme stia insieme!


Superato lo choc, siamo arrivati ad un passo dall'altare; la ballad lunare di "Offer" è l'offerta votiva al cuore del rito, anche quando non disdegna piccole fughe reggae e voli di tastiere degni del miglior prog. "On The Way" è un pezzo ponte in cui le chitarre introducono la seconda parte del lavoro, più meditativa e meno d'impatto, anche se il fraseggio pseudo scottish stile cornamusa a che lancia il riff successivo non lascia come trova; gli assoli - sempre in questo album misurati, di gusto, collocati in modo originale e mai riempitivi - ne costituiscono la sostanza e danno adito a frequenti fughe. Sublime l'ingresso delle voci a fine brano, che sfuma nell'indistinto: "Sold to me the mountains, the sea/ And the morning sun/ All between the lines that will read/ Of a tale uninspired/ Cold machine/ Life unseen/ It's a long way home". "Digital Ritual" immerge in una coltre elettronica sospesa tra trip hop e IDM ("Enticed by design/ A world behind your eyes/ So sink right in/ Traversing time with/ Nothing but your mind"), dietro le cui nebbie traspare lo scheletro di una lullaby malinconica, coltre che prolunga nel suadente e graffiante arabesco di "Face The Sun": "Come on now, you're ready/ Forward escape/ Farewell/ Go light the way/ Or stay here/ Further/ Higher/ Lighter/ Face the sun". Il rituale culmina nella struggente, emozionante "Zenith": un ultimo assaggio di tutto ciò che di meglio la band può offrirci: "Alone, severing a tie/ Self-interest at the zenith/ Atone with a life's word/ A beacon to shine a light on/ What we're capable of".


Raramente tanto gusto e perizia sono al servizio di un'approccio così intrigante ed originale e raramente una band ha saputo volgere al proprio volere i generi più diversi senza rimanerne ingabbiata. L'unica cosa che ci sentiamo di aggiungere è che ne consigliamo il primo ascolto rigorosamente in cuffia e direttamente sul loro sito, godendosi però anche le animazioni prodotte da Mr. Crystalface, visual artist australiano responsabile dell'artwork della band. Un'ultima raccomandazione: procuratevi adeguate cinture di sicurezza, perché qui non si corre. Si prende il volo.





1. Anamnesis
2. Entrancement
3. Organic Hard Drive
4. Offer
5. On The Way
6. Digital Ritual
7. Face The Sun
8. Zenith

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