Non meraviglia dunque che, nell'ultimissimo Infest The Rats' Nest, i nostri eroi abbiano deciso di sporcarsi un po' le mani con l'heavy metal; genere da loro già costeggiato e corteggiato in varie forme, dalle fughe forsennate ed elettriche del fortunato "Nonagon Infinity", alle atmosfere cupe di "Murder of The Universe", fino all'incipiente rock stoner di alcuni brani di "Gumboot Soup". I King Gizzard non cambiano però genere in modo rapsodico, con contrasti a tinte forti e l'intento spesso parodico del crossover; al contrario, ordinano il materiale eterogeneo delle jam in album fortemente tematici, spesso veri concept, ognuno riconducibile a matrici ben riconoscibili, ma di cui la band sa appropiarsi con gusto, classe, entusiasmo ed un pizzico di ingenuità che non guasta. Infest The Rats' Nest è un disco che più metal non si potrebbe e che, allo stesso tempo, prende risolutamente le distanze da quasi tutto ciò che oggi occupa le classifiche di genere. Da un lato, infatti, la band propone la propria rilettura di stilemi classicissimi come l'uptempo spaccatutto ("Planet B", che è un atto di accusa alle distruzioni naturali operate dall'uomo a ritmo sempre più forsennato, "Organ Farmer", "Venusian 1 & 2" tutte innervate di rimandi al thrash delle origini, ai primi Voivod e allo stile solista di Piggy, la conclusiva e quasi slayeristica "Hell"), la cavalcata bluesy ("Mars For the Rich" che ironizza sul progetto di Elon Musk, tychoon del colosso Pay Pal, di portare entro dieci anni uomini - ovviamente facoltosi come lui - su Marte) e il downtempo al limite del doom ("Superbug" gronda di atmosfere sabbathiane già rilette attraverso lo stoner rock).
Dall'altro lato, i King Gizzard compiono la scelta fortemente inattuale (ma non anacronistica) di guardare ad un sound germinale dalla resa "flat" prossima allla ruvidezza della "presa diretta" - lontana dalle iperproduzioni metal odierne che tendono a levigare, smussare, arrotondare e comprimere il suono - fortemente legato allo space rock nella sua versione più agguerrita (gli Hawkwind), il tutto coronato da un cantato sporco e saturo che sembra arrivare dritto dritto da "Dopethrone" degli Electric Wizard. Non si tratta dunque di un'operazione nostalgica, rischio che la band sembra correre spesso senza mai davvero indulgervi, ma di delicato innesto anche grazie ad un uso sapiente e spesso dissimulato di tempi complessi che stravolgono i modelli di riferimento. Prendiamo "Self - Immolate" che procede su una doppia cassa continua e furibonda di pura marca thrash, ma i cui break e spostamenti di tempo ed accento nei riff e nel cantato, rendono straniata. Questa variabilità di accenti fa netto contrasto con la monotonia armonica - così insolita per i King Gizzard, già esploratori delle microtonalità, da non poter essere che voluta - , nel senso che i brani ruotano attorno ad una ed una sola tonica di riferimento, con effetto fortemente claustrofobico. La sensazione è che, nelle loro mani, il metal divenga un sottogenere o bad trip della psichedelia, un po' come Borges scriveva che la teologia può essere considerata una branca della letteratura fantastica. Si potrebbe accostare questo riuscito esempio di incursione non autorizzata ad un illustre fallimento del recente passato che va nella stessa direzione: "Orion" di Ryan Adams del 2010, salutato all'epoca come "capolavoro", ed oggi perlopiù dimenticato. "Infest The Rats' Nest" non pretende forse gli allori del masterpiece, certo è un lavoro fresco e frizzante per una combo che, per chi ha orecchie, non smette di meravigliare. Il 15 ottobre sarà in Italia per un unica data milanese, ghiotta occasione per i neofiti.