Interpol
Antics

2004, Matador
Alternative Rock

Recensione di Giulia Franceschini - Pubblicata in data: 17/01/14

Lo scenario è quello tipico dell'indie rock/new wave, forse l'immagine di band che si accosta più facilmente al genere. Quattro giovanotti vestiti bene, al massimo un po' di barba incolta, visetti da bravi ragazzi, chitarra, basso, batteria e voce. Niente strumenti strani, niente eccessi di roba tecnologica ad alterare i suoni. Sono tutte premesse per un rock semplice e puro. E qui viene la parte difficile: niente effetti speciali, bisogna stupire e attirare solo con le proprie qualità. Forse in questi casi è più facile fare associazioni, a notare di più le influenze, non che vengano particolarmente nascoste in questo caso, anzi, vengono ben rielaborate e riproposte, e non è così semplice. Evidenti i riferimenti a Joy Division, The Cure, Velvet Underground, tutte influenze ben gestite però. L'esordio degli Interpol risale al 2002 con “Turn On The Bright Lights”, un album ben accolto, una band che arriva ad arricchire il panorama rock con tutte le sue buone ragioni. Una sezione ritmica solida con riff di chitarra definiti, riconoscibili e taglienti che riempiono e danno perfettamente tono a tutti i brani, voce bassa e cupa: la ricetta della new wave insomma.


Con “Antics”, uscito nel 2004, gli Interpol provano a definirsi meglio. Già il titolo (“buffonate”) insinua non poca curiosità di scoprire se non stiano intendendo questa parola letteralmente. Con il nuovo lavoro limano un po' la loro parte più grezza, dandoci infatti brani sempre riempiti della loro vena da romanticismo del 2000, ma con linee più asciutte, angoli più smussati e qualche infiltrazione di luce nell'atmosfera underground e scura del predecessore. Il secondo album è sempre una mossa importante per una band, se l'esordio è stato grande e apprezzato, i paragoni e i giudizi posso essere non così gentili e pacati e le aspettative sono alte.


L'album si apre con “Next Exit”, che dice già un bel po' sullo stile del secondo full-length. Non che la direzione sia del tutto stravolta, ma qualche differenza espressiva può essere trovata nel cantato più caldo di Banks, nelle melodie più aperte e nei suoni più squillanti. Paradossalmente le “Bright Lights” del primo album sembrano farsi vedere adesso. Entra poi senza chiedere permesso con un basso prorompente “Evil”, che ha quasi un non so che di allegro, così come “Narc”. Arriva a smorzare un po' i toni “Take You On A Cruise”, un brano di passaggio che non aggiunge molto all'album, per approdare a “Slow Hands”, singolo di successo per la band, un bel rock pulsante, forse un po' commerciale (una definizione così odiata, quindi diciamo più che altro “orecchiabile”), ma un buon biglietto da visita, passando a una “Not Even Jail” quasi pop considerato il tenore della band.


L'ultima parte dell'album è un po' più controversa. Alcuni brani come “C'mere”, possono sembrare ripetitivi nonché riempitivi, ma in certi punti sembra di ritornare all'oscurità delle origini come in “Lenght of Love”, dove ricompaiono le chitarre più cattive. A Time To Be So Small” chiude in modo dubbio un album che non può essere definito una delusione. Forse è solo più accessibile, un seguito degno di “Turn On The Bright Lights”, un lavoro più preciso e raffinato, illuminato qualche raggio di luce che fa ben sperare per il futuro.





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