Passiamo ora a parlare in concreto del lavoro in questione: di certo, l'album è ben confezionato e suonato in maniera impeccabile, curato nei minimi particolari come da tradizione della band. Il disco rispetta tutti i canoni a cui il gruppo ci ha abituati e probabilmente piacerà molto ai fan di lunga data, ma purtroppo riporta anche i soliti difetti della compagine della maschera. L'album, infatti, in alcuni frangenti, risulta eccessivo, prolisso e troppo articolato: Dushan, ad esempio dimostra più volte di essere un ottimo chitarrista e un buon compositore, ma in alcuni passaggi si dimostra eccessivo ed alcuni assoli, se non canzoni intere, risultano essere troppo lunghi e ripetitivi. Il punto forte del lavoro è sicuramente la qualità della realizzazione e l'ossessione per i particolari, pregi che in alcuni passaggi divengono difetti. Alcuni pezzi, comunque, risultano ben riusciti e godibili come ad esempio i primi due: "I Don't Forget, I Don't Forgive" apertura energica e ben sostenuta e la più orchestrale "Doctor Faust" ottimo pezzo, molto evocativo e ben amalgamato . Questi, insieme alla title track e ad altre due canzoni, "Oliver Twist" e "The First and the Last", risultano i miglioribrani dell'album, ispirati e mai banali. Le altre tracce possono risultare in alcuni passaggi, come abbiamo già detto, di non facile assimilazione. Due esempi di queste problematiche sono la lunga "Ararat" e l'eterna "Cursed in the Devil's Mill".
Dunque a che tipo di lavoro siamo davanti? Probabilmente ad un'alternanza di ottimi pezzi con altri meno riusciti o appunto troppo "pasticciati", in una ricerca costante e barocca dell'eccessività. In sé il lavoro è ricercato, ma manca, in diversi passaggi, di originalità, restando ancorato ad un neoclassicismo chitarristico che può minarne la longevità e la pazienza dell'ascoltatore. Sufficiente, anche per la qualità dell'operato, ma senza dubbio in futuro occorre ricercare una ventata di aria fresca per non restare ancorati a dei chiodi fissi.