Il tema dell'isola appare versatile: racconta di circolarità e solitudine, delinea il contrasto e la contiguità di suolo e oceano, indica la giuntura di linea chiusa e orizzonte libero e aperto, il luogo centrale e quello periferico. Ambiguità raddoppiate dall'immaginario, caratterizzato a un tempo dall'abbandono e dall'ossessione della ricerca, dalla privazione e dalla pace, dalla sciagura dello spazio ristretto e dalla felicità del dominio compiuto in sé medesimo. Superficie sterile e giardino, territorio dell'innocenza e del peccato, la porzione di terra galleggiante fra l'acque rappresenta l'impronta della totalità in grado di insegnare la genesi e il raggiungimento della pienezza, stampigliando la coabitazione armoniosa e tormentata di mito, utopia e simulazione.
Suggestioni provenienti direttamente dal terzo album degli Antarte, successivo alla buona prova di "Olio Su Tela", lavoro profumato d'avanguardia in cui non mancavano costruzioni blue note e coloriture ambient: "Isole", complice l'ampliamento della formazione, fruisce di una dilatazione dello spettro espressivo, approdando su coste frastagliate dall'illusione e battute da venti fischianti tumulto. In una densa congerie d'insieme mescolante sperimentazione, dream pop e slowcore, delicate e complesse partiture si muovono liquide, fondono la malinconia all'impalpabilità soave, si giovano di loop e campionamenti di evocativo riverbero, lasciano acquerelli di etereo rallentamento. Se la voce sofferta e intensa di Luca Morreale, si inerpica vellutata, recitante nascosto e incunabolo emotivo che scopre nel sibilo rarefatto il compagno ideale del fluttuante sciabordio rumorista, la coesione del tessuto sonoro e il dialogo dell'eclettico apparato strumentale disegnano placide onde capaci di sollevare maree d'assoluto. I testi, intanto, dondolano in un ermetismo trasognato.
La psichedelia in crescendo di "Oasi" rincorre la purezza dello spirito dopo un inizio gravido di inquietudine, il morbido folk autunnale di "I Tuoi Giorni" si adagia su chiose nostalgiche e inevitabili ("So che te ne andrai..."), mentre il pianoforte di "Senza Luna" sorregge una mesta elegia recitata al tramonto. Brano anticipatore del frastuono melodico di "Nessuno" e "Scirocco", che esplode improvviso tra le maglie di un'apparente atarassia: un torpore esistenziale che la detonazione chitarristica frantuma in pezzi, in un deliquio lancinante eppur passito. Seguono la jazzistica "Bolina" che gode delle frequenze in vibrazione degli archi e la chiusa "Buona Fortuna", adatta a trasportare l'ascoltatore su rilassate cadenze alla moviola: nel mezzo, l'elegante "Castelli Di Sabbia" si avvicina a uno shoegaze pittorico dissolvente in fragili vapori incantati.
Latori di una proposta raffinata, benché non di immediata fruizione, gli Antarte si dimostrano una band ormai avviata alla costruzione pressoché completa di un'identità stabile e multiforme, abile nell'incorporare stimoli derivanti dalle varie declinazioni del post-rock e dalle esperienze della musica colta: la topografia poetica di "Isole" rivela la fugace indeterminatezza dell'evasione.