Tinte post-industriali, contemporanei goticismi che ammantano acute e riverberate chitarre coi nerissimi drappi di un'opprimente post-punk: continuano nella loro strada i Japan Suicide, a ben cinque anni dalla loro prima testimonianza. Vanno ancora avanti, a portare la loro anacronistica bandiera, nostalgica dell'Inghilterra a cavallo dei '70 e degli '80, come i curvi figuri che trascinano il nero brandello che svolazza sotto un cielo rosso cremisi, nella cover di questo nuovo "We Die In Such A Place".
Si lacerano anime in questo disco, si spezzano voci, si cerca un digrignato contegno Reznoriano finendo per esplodere in lamenti e per trascinare inerti power-chord. Si lasciano parlare ora i bassi, liquidi e pesanti, ora gli amplificatori lasciati soli alla loro elettrica egonia. Ci si appoggia alla solidità di rullate batteristiche, contrapponendole a effimeri delay. Si parla, manco a dirlo, di morti, solitudini, amarezze, nichilismi.
Tra qualche episodio di valore assoluto ("A Mood Apart", o ancor meglio "Tokkotai") e qualche emulazione di troppo del cantato smozzicato di Robert Smith, "We Die In Such A Place" è un album che non innova ma che non si può liquidare perché già sentito. Un viaggio che val la pena provare, per trovarsi alla fine dei suoi quaranta minuti con un animo indubbiamente più wave, soddisfatti del proprio -inevitabilmente sopraggiunto- sconforto.