John Garcia
The Coyote Who Spoke In Tongues

2017, Napalm Records
Stoner Rock

Con The Coyote Who Spoke In Tongues, John Garcia torna dopo 3 anni di assenza in un'inedita veste acustica
Recensione di Isadora Troiano - Pubblicata in data: 01/03/17

Cosa succede quando il “padrino” dello stoner rock, uno dei capostipiti di un sottogenere che è diventato quasi leggendario, un uomo del deserto come John Garcia prende la strada dell’album acustico?
Ebbene, succede che, in maniera del tutto naturale, lo stoner si adatti alla combo voce e chitarra, che canzoni che hanno fatto la storia del genere prendano forme del tutto inedite ma assolutamente godibili e che il suddetto John Garcia faccia centro con un disco che da uno come lui non ci saremmo mai aspettati.
 
Ma andiamo con ordine: dopo il primo album solista del 2014, John Garcia si era un po’ defilato, spuntando ogni tanto con qualche progetto parallelo ma di fatto passando quasi tre anni senza far uscire nuova musica. Quindi vederlo riapparire nel 2017 con un album totalmente acustico ha fatto storcere il naso a molti. 
Era nell’aria, lui stesso l’aveva dichiarato, che avrebbe dato un seguito all’album suo omonimo del 2014 ma ben pochi si sarebbero aspettati qualcosa di simile. Tanto più che, scorrendo la tracklist, saltano immediatamente all’occhio i titoli di alcuni dei capolavori della sua prima, immortale band, i Kyuss. 
C’è anche da dire che lo stoner, negli ultimi anni, ha perso parecchio terreno dopo il boom del primo decennio degli anni 2000, quando band come i Fu Manchu, gli Orange Goblin, i Monster Magnet o gli Unida (altro gruppo di John Garcia) rilasciavano dischi che sono ormai dei capisaldi del genere, e ora come ora manca di linfa vitale data da nuove band che possano portare avanti l’eredità dei suddetti gruppi e del genere.  
 
In un simile contesto, "The Coyote Who Spoke In Tongues" è un disco soddisfacente, anche se senza particolari innovazioni né momenti che fanno gridare al capolavoro.
Pezzi come "Green Machine" o "Gardenia" si trasformano in ruvide ballate dal sapore quasi country, piacevolissime da ascoltare e che stupiscono per la naturalezza con cui sono state trasformate. 
Subito con la prima traccia "Kylie" ma anche con pezzi quali "The Hollingsworth Session" o "Court Order", brano che chiude l’album, basta chiudere gli occhi per trovarsi nel bel mezzo del deserto californiano, sentire l’odore della polvere e il fruscio dei serpenti a sonagli che strisciano tra i cactus. 
La voce di Garcia, inutile dirlo, è perfetta per lo scopo perché è una delle incarnazioni dello stoner stesso, un marchio di fabbrica, e il lavoro fatto insieme a Ehren Groban alla chitarra, Greg Saenz alle percussioni e Mike Pygmie al basso completa l’effetto finale dando a ogni brano la patina polverosa del deserto che non perde affatto di mordente una volta privata della più classica spinta elettrica. 
Si tratta di un disco maturo, creato da un artista che ormai ha lo stoner nel DNA e ne ha una tale padronanza da potersi permettere di rivisitare dei classici dei Kyuss senza sembrare blasfemo così come di scrivere nuovi brani che nascono dalle radici blues che sono la base del genere, uno su tutti Give Me 250ML.
Nota di merito al riarrangiamento di Space Cadet, che dal viaggio psichedelico che era in originale si trasforma, quasi spontaneamente, in un blues liscio come un bicchiere di bourbon, da saloon del vecchio west.  
Anche l’ascoltatore più scettico, il più radicato fan di Garcia e dello stoner, potrà quanto meno apprezzare questo disco, anche solo come un esercizio di stile ben riuscito. Come a dire: ne avevamo bisogno? Forse no, però ci piace e lo terremo buono per qualche solitaria trasferta in macchina nel deserto. 





01. Kylie
02. Green Machine
03. Give Me 250ml
04. The Hollingsworth Session
05. Space Cadet
06. Gardenia
07. El Rodeo
08. Argleben II
09. Court Order

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