Kamelot
Haven

2015, Napalm Records
Power Metal

L'eterna dualità musicale dei Kamelot colpisce ancora e compone una grigia, piccola perla
Recensione di Costanza Colombo - Pubblicata in data: 28/05/15

Si ringrazia Alessio Sagheddu per la collaborazione.

 

Ancora una volta sulla soglia del paradiso promesso da Youngblood & Co. Ancora una volta in vista di uno spiraglio di speranza tesa in epiche e sofferte promesse d'amore a ponte sull'oceano della fragilità umana, vittima dell'ineluttabilità del tempo in una società ben lungi da quella descritta in "Soul Society" e auspicata nell'ancora inarrivato "The Black Halo". Senza dubbio all'altezza delle ormai modeste aspettative di quei fans, ancora in cordoglio per l'abbandono di Roy Khan, c'è da ammettere che il salto di qualità dal primo figlio del divorzio col cantante norvegese è innegabile. Più organico e di maggior carattere, vien da azzardare di posizionare "Haven", tematiche incluse, tra la malinconica carezza di "Ghost Opera" e il nero vigore di “Poetry For The Poisoned”.

 

Chi ama i Kamelot fin dai trionfi d'epicità alla "Center Of The Universe" non potrà restare indifferente agli accattivanti ruggiti di "Veil Of Elysium" e "Liar Liar (Wasteland Monarchy)" mentre gli appassionati dei duetti notturni potranno consolarsi con una apprezzabilissima "Under Grey Skies" (accompagnata dalla cornamusa di Troy Donockley e la voce di Charlotte Wessels) paragonabile al trascorso buon livello di "House On a Hill" senza ahimé riuscire a toccare le medesime corde di "So Long".' Si segnala l'irresistibile vivacità di "My Therapy" (di puro stampo "Human Stain"), ma si resta un pò delusi dai pezzi d'apertura. Si parte, infatti, in quinta con la cavalcata di "Fallen Star", apparentemente al galoppo verso i vecchi fasti di "Karma" per poi sgonfiarsi e farsi seguire da una tutt'altro che originale "Insomnia" e riscattarsi con "Citizen Zero". Buono il crescendo in finale con tanto di squisiti accenni in growl (“Revolution”) a sottolineare l'eterna dualità espressa dallo stesso artwork, tradizionalmente al femminile. L’apporto versatile di Alissa White-Gluz si dimostra poi in questo senso la giusta scelta per la band, sia con clean che harsh vocals.

 

Ancora una volta i Kamelot ci affascinano, dividono e fan combattere in miraggio sul filo di quel cancello per la beatitudine, per quel luminoso oblio tanto agognato. L'apice celeste in opposizione al tenebroso limbo dove cui tutti siamo condannati, almeno finché un pulsante bacio, di corrotta beatitudine, strappi al nero e santifichi in serpentina tentazione oltre ogni velo e coltre, oltre ogni dolore e solitudine. Nonostante che ormai ogni speranza che chiudendo gli occhi, si possa smettere di attribuire il cantato di Karevik a una versione edulcorata di Khan, sia stata ancora una volta frustrata, s'apprezza come una band ormai matura, su più fronti, sappia autocitarsi con la moderazione richiesta dall'operazione, sia a livello stilistico che lirico. E lo faccia rinnovata dalla fresca e accattivante prova canora di Karevik che fa sempre e comunque più del suo meglio per affrancarsi da un'ingombrante eredità così da trasformare, quello che molti potrebbero considerare un sentito e ridimensionato canto del cigno della stessa band priva della metà d'anima perduta con l'abbandono di Khan, in un'esperienza musicale ben più convinta e convincete del precedente "Silverthorn".


Grigia perla dedicata a ornare in solitario quelle menti usurate del cronico incubo protagonista di tutta la più recente produzione dei Kamelot, quel doloroso prezzo già pagato in "The Human Stain" e che infine pare trovar universale antidoto nella già citata "My Therapy”. Questa, l'ossessione vincente se e solo se intesa come secondogenito ancora in crescita verso quella completezza (si augura) ancora da ritrovare.





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