Kasabian
Empire

2006, Sony
Pop Rock

Recensione di Riccardo Coppola - Pubblicata in data: 17/05/15

I Kasabian volevano davvero mettere in piedi un impero all'interno del mondo alternative-brit-indie rock. Potevano davvero riuscirci. Avevano cominciato facendo i riottosi, riempiendo di dub il granitico "LSF"; avevano continuato svestendo quegli abiti cremisi da violenti comunistoni, trovando più consona a loro un'attitudine da spocchiosi hooligans. Nascevano le prime faide (nientemeno che con i My Chemical Romance... direte voi: che c'entrano? Risponderemo noi: niente), i primi intimi attestati di rilevanza sotto forma di insulti, sparati e ricevuti senza star troppo attenti alla loro necessità e coerenza. E spuntava anche il secondo album, "Empire" per l'appunto, che si inoltrava in tanti territori diversi, un po' a caso, un po' per dire "qualsiasi cosa avete in mente sappiamo farla", e -cosa strana, veramente strana- riuscito in (quasi) ogni sua sfaccettatura.

 

Intendiamoci: "Empire" non è il capolavoro che la band non ha mai fatto e che forse non farà mai. Non è un album gloriosamente brit e nostalgicamente Seventies come il goliardico "Velociraptor!", e nemmeno un delirio infiamma-arene come "West Ryder Pauper Lunatic Asylum" - e neanche, ma ci mancherebbe, una mezza schifezza come "48:13". Ma è un disco che diverte tantissimo, che fa della varietà il suo assoluto punto di forza, che riesce a sorprendere a ogni ascolto per la disinvoltura con cui riesce a lanciarsi da un ambito all'altro, come se fosse la cosa più naturale che possa immaginarsi. La title-track, per esempio, è un inno di quelli che marchiano a fuoco una carriera intera, una marcetta di avviluppanti basi elettroniche e di ritornelli marziali, dal gusto al tempo stesso futuristico e retrò (non chiedete come sia possibile). "Shoot The Runner", lanciata da un video tamarro quanto azzeccato, è forse la più diretta e immediata guitar-song mai partorita dalla band: cantato ripetitivo e urlato al punto giusto, ignorantissimi riffoni di power-chord stoppati. Poi ci sono le divagazioni nell'elettronica senza fronzoli che si bazzicava in quei periodi (non i finti e annacquati synth che fingono di intellettualizzare il pop ma in realtà finiscono per poppizzare il rock): "Apnoea" non è altro due minuti di spallate in mezzo a un rave con qualcuno che sparge vocalizzi lamentosi a far da sottofondo; "Stuntman" continua a portare avanti questa sintetica concezione di macello in maniera, se possibile, ancora più sconsideratamente coinvolgente, mettendoci sopra effetti al microfono, e sotto una batteria "reale" in assetto da battaglia; "By My Side" ci infila un intermezzo di chitarra simil-raggae (?!?) e porta il tutto in una dimensione più dreamy-romantica.

 

C'era la conferma (meno roboante, più qualitativamente omogenea) delle potenzialità di un potentissimo esordio, c'erano tanti punti di partenza in "Empire", tante piccole perle, tanti indizi che per le mani si poteva avere una band, se non rivoluzionaria, quantomeno destinata a lasciare una traccia significativa nell'alternative moderno. A costruirci dentro il suo piccolo impero, per l'appunto. La storia ha voluto che così non fosse, ed è per questo che tornare indietro al 2006 lascia quella mesta tristezza delle promesse non mantenute.





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