C’è in giro una quantità enorme di musicisti di successo che infarciscono i loro versi di pomposità retoriche e che si atteggiano a cantori dell’umanità tutta, scrivendo testi il più possibile impersonali e generici, in modo da permettere a qualsiasi ascoltatore l’immediata immedesimazione e la lacrimuccia facile. Eppure, sembra proprio che al giovanissimo cantautore londinese Keaton Henson non importi nulla di tutto ciò. Ragazzo dalla personalità complessa e, sembrerebbe, non nuova a instabilità e paranoie, il ventiquattrenne Keaton pare avere un’esigenza di fare musica sentita e autentica come in pochi altri casi fra i suoi colleghi, lontana da un calcolato e opportunistico tentativo di indossare i panni sdruciti del poeta tormentato e decadente.
Artista a tutto tondo, iniziato all’arte nel campo della pittura e del disegno (sua la sgomenta bambolina di porcellana nella cover di questo secondo lavoro in studio), Henson fa uso della sua musica per raccontare struggimenti vissuti sulla sua pelle, parlando di se stesso e di poco o nient’altro. Sempre in prima persona, dà voce alle timide richieste d’aver insegnato come amare di “Teach Me” (“Teach me how to hold you in my arms, without squeezing too damn tight and causing harm”), alle fragili suppliche della successiva “10am Gare Du Nord” (“Please do not hurt me love, I am a fragile one”), alle menzogne di “Lying To You”, alle riflessioni mattutine di “In The Morning”. Sono singoli, semplici istanti di vita, astratti dalla quotidiana frenesia che soffoca ogni sentimento, e cristallizzati in un folk-rock che mantiene l’essenza delicata dell’esordio “Dear”, ma che si fa senza dubbio più curato e stratificato. Se la costruzione di base dei singoli pezzi resta quasi sempre affidata alla chitarra acustica, infatti, sono sparsi per la tracklist momenti di respiro decisamente più ampio: le aperture di violini di “You”, l’ingresso della batteria che dà un maggior nerbo a pezzi come “The Best Today” o “Beekeeper” (quest’ultima caratterizzata anche dalla gradita comparsa del banjo), l’esplosione di rabbia che ha inizio nella seconda metà di “Don’t Swim” e prosegue per la successiva, dura, “Kronos”. Comune a tutte le tracce lo stile di canto di Henson, vivo e sofferto, che sembra in più occasioni sul punto di spezzarsi in singhiozzi. Un falsetto tremulo e delicato, accompagnato in alcuni episodi da una altrettanto soave voce femminile (dell’ospite Jesca Hoop), con cui va a comporre intrecci di una grazia straordinaria.
Sebbene abbia in scaletta qualche pezzo meno convincente e non sia un'opera di semplice assimilazione, ascolto dopo ascolto “Birthdays” si rivela, si fa capire, si fa amare. Tredici storie sincere, fatte di rammarichi e promesse, rancori e amorevoli tenerezze, con cui Keaton Henson affina ulteriormente quanto di buono aveva già mostrato meno di un anno fa con l’album di debutto, e cementifica la sua posizione tra i più validi e genuini cantautori indie-folk dei nostri giorni.