King Diamond
Abigail

1987, Roadrunner Records
Heavy Metal

Recensione di Alessio Sagheddu - Pubblicata in data: 31/12/13

"C'era una volta"... no, non è l'incipit adatto. Era una notte buia e tempestosa - ecco sì, così e meglio - di fulmini e saette, una di quelle notti dove la pioggia tamburella come una batteria in sedicesimi. Una di quelle in cui guardando dalla finestra, ben sapendo di essere al riparo, si sente il peso di memorie passate, orfane di un proprietario. Così, nel tentativo di distrarsi, si alza lo sguardo verso lo scaffale di vecchi dischi impolverati e segnati dal tempo, e aiutati dalla luce dei fulmini si fa cader l'occhio sulla colonna sonora di vecchi, macabri ricordi.

 

Nel nostro caso il disco in questione è "Abigail", capolavoro discografico e musicale della carriera del Re Diamante e dell'heavy metal tutto, partorito nei turbolenti anni seguenti allo scioglimento e alla riunione dei Mercyful Fate (con un Hank Sherman in meno), e secondo album pubblicato - con Andy Larocque alla chitarra e Roberto Falcao alle tastiere - sotto il nome del solo frontman. E' un disco fatto di ambientazioni horror, cantato da una voce capace di districarsi con estrema disinvoltura tra registri in controtenore, bisbigli, lamenti e un inossidabile falsetto (ereditato da Rob Halford, e diventato marchio di fabbrica del Nostro). A dare il nome all'album è la figlia (o meglio, presunta tale), del conte LaFey, concepita in una relazione extraconiugale e causa indiretta dell'uccisione della madre, avvenuta al grido "No, nessun figlio bastardo erediterà ciò che è mio, né ora né mai!". All'efferato omicidio non sopravvive nemmeno Abigail: il suo demoniaco fantasma, generazioni dopo, scatenerà la sua vendetta sui suoi discendenti, colpevoli soltanto d'aver ereditato la dimora dove avvenne il delitto. Ogni traccia è un diverso momento della storia ed ogni momento della storia ripercorre senza filtri la truce maledizione a cui è stata sottoposta Abigail, incatenata da sette chiodi che la tengono lontana dal mondo e della libertà ma ben salda nella propria bara. “Never rise and cause evil again” proclama una voce durante “Funeral”, ma ben presto il demone reclamerà di nuovo la sua libertà e a farne le spese saranno proprio Jonathan LaFey e Miriam Natias.


“As the candlelight began to fade, and jonathan said "let's go to bed.."

L’intro è il palcoscenico funebre di una voce fuori campo, affettata quanto tagliente, che citando il nome della nostra Abigail ci accompagna alla bestiale apertura chitarristica di “Arrival” che parte all’impazzata, accompagnata dal memorabile riff di chitarra che a distanza di anni fa ancora scuola. E il nostro King Diamond non si trattiene certo con le vocals, passando in modo quasi bipolare dai propri registri baritonali gracchiati ad un falsetto in crescendo. Nella seguente “A Mansion In Darkness” a farla da padrone è il drumming pesante di Mikkey Dee che segue come un forsennato un riff in perenne mutamento, mentre il nostro King descrive a gran voce le sensazioni altalenanti che i due sfortunati coniugi affrontano alla scoperta della casa. “The Family Ghost” non è certo la prima canzone che si ricorda citando l’album, quello che invece ben si rimembra è l’immagine delle dita sopra la chitarra, muoversi come in preda ad un esorcismo durante gli assoli. La lugubre intro acustica di “The 7th Day of July 1777” e la cadenza stanca e isterica di “The Possession” (memorabile l’arpeggio che si fonde con la batteria creando un tumulto strumentale dai tratti cinematografici) fanno da contrasto alla voce del nostro, che sembra giocare tra risate demoniache e acuti in falsetto. Diverso il discorso per “Omens” che suona accattivante e con orgoglio dona al synth un momento di pura gloria in pieno stampo “power”. La vera primadonna dell’album è la title-track, autentica incarnazione della demoniaca Abigail che tuonante ed ormai libera ridacchia alle spalle del povero Jonathan cantando: "i am alive inside your wife..”. Avevamo accennato al registro baritonale ma non a quello da basso del nostro King, che ci viene presentato nella conclusiva “Black Horsemen”, canzone che prende un po’ le forme - strumentalmente parlando - di un crescendo alquanto bizzarro, pur tenendo ben presente ogni piccola caratteristica delle precedenti tracce e creando pertanto una sorta di riassunto dell’intero album. Da sottolineare come quest’ultima si discosti parecchio dal brivido e dall’istrionica interpretazione del nostro King negli altri brani, questo ne fa sicuramente la canzone simbolo di questo grande album.

Uno di quei capolavori discografici che durante gli anni ha portato consensi e influenzato svariate band - in alcuni casi bene, in altri non proprio - sicuramente il miglior lavoro solista del “Re”. È abbastanza scontato ricordare in questa sede che chi non apprezza il canto in falsetto non amerà certo queste canzoni, ma al di là di questo va premiato con le giuste onorificenze il lavoro dell’intera line-up (completata da Michael Denner alle chitarre e Timi Hansen al basso) troppo spesso oscurata dalla fama del leader. Evergreen.




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